Maria Delli Quadri [1]
Ho letto, con grande emozione, una poesia: “la casa mé” composta da un bambino di terza elementare, Giuseppe, che, all’ombra del castello, rivolge al suo paese (Bugnara- AQ) un accorato appello: l’augurio per sé di non dover lasciare mai il luogo dove è nato, dove ha imparato a conoscere il mondo, ha giocato, ha riso, ha pianto (http://www.altosannio.it/casa-poesia-bambino-prega-non-diventare-giovane-sperduto/ per comodità, la poesia è riportata a fondo pagina)
Credo che ognuno di noi provi per il suo paese sentimenti simili, anche quando, e allora più che mai, le vicende della vita lo costringono a cambiare rotta per esigenze di lavoro, di studio o altro. L’amore per il luogo natio è una categoria della mente, un sentimento ancestrale che ci portiamo dietro per la vita e che ci fa sentire sempre parte di quella comunità che siamo stati costretti a lasciare.
Noi, abitanti di questo lembo d’Italia, marginale, periferico, abbiamo sofferto più di tanti altri l’abbandono delle forze vitali giovanili a causa dello spopolamento delle campagne, della fine dell’artigianato e delle piccole attività imprenditoriali che hanno dovuto cedere il passo di fronte ai colossi dell’industria nazionale.
Le valige di cartone legate con lo spago sono state migliaia negli anni, per cui i paesi si sono spopolati, i negozi ridotti, gli uffici trasferiti; anche le scuole, primo polo di aggregazione, vanno, soprattutto oggi, riducendosi per mancanza di alunni. Capracotta era il paese dei sarti; oggi non ce n’è più neanche uno. E’ inutile stare a rivangare torti e ragioni, a chiederci il perché.. L’esodo è stato di dimensioni bibliche. Noi, soprattutto anziani che siamo rimasti, proviamo incertezza e senso di solitudine nel constatare il deserto intorno a noi. Vorremmo tanto far rivivere, nel rispetto del progresso raggiunto, l’armonia dei tempi passati, i valori, le certezze, le speranze; ma inutilmente: spingiamo un muro invalicabile, una porta sprangata che si oppone ad ogni tentativo di apertura e di comunicazione. E allora noi di qua, i giovani di là senza possibilità di comunicare , di dire, di argomentare
Per loro siamo “dinosauri”, rimasti fermi all’età della pietra Noi non sappiamo che cosa pensano, dicono e vogliono. C’è una commedia bellissima di Eduardo in cui lui, tornato dalla guerra, vuole raccontare alla famiglia, finalmente riunita a tavola, le vicende della sua prigionia, gli orrori del campo di concentramento, delle sofferenze terribili da lui vissute con tanti amici e compagni morti o disintegrati nei “forni.” I parenti, come lui comincia il discorso, cambiano argomento, gli tappano la bocca, sicché il protagonista non può mai far partecipi gli altri delle disgrazie patite.
Così siamo trattati noi, della nostra generazione, che pure siamo stati gli artefici primi del progresso in cui “lor signori” oggi vivono. Abbiamo studiato con sudore e sacrificio, abbiamo portato abiti e cappotti ripassati da una generazione all’altra, scarpe scalcagnate e stivaloni di gomma, ci siamo accontentati del tozzo di pane, delle minestre senza sapore, della pasta col sugo una volta a settimana. Genitori severissimi che con uno sguardo spegnevano tutti i nostri slanci.
Tuttavia il fuoco covava sotto la cenere: abbiamo, una volta adulti, lavorato senza sosta, con o senza la valigia di cartone legata con lo spago, ci siamo risollevati dalla miseria abbiamo alleviato le sorti della famiglia che erano allo stremo.
E qui forse abbiamo cominciato a commettere qualche errore: ognuno di noi ha giurato in cuor suo che i propri figli non avrebbero mai sofferto le nostre privazioni, per cui (e potevamo permettercelo) abbiamo comprato e comprato: dalla casa con tutti i confort e con le cucine spaziali, alla macchina, alla TV, alla radio, al “mangia dischi” ed altri aggeggi di questo genere, ai giocattoli sofisticati, agli abiti firmati, alle scarpe, tutto in quantità. E, mentre Ernesto Calindri beveva “contro il logorio della vita moderna” il Cynar in mezzo al traffico della città già allora impazzito, noi non ci accorgevamo del disastro, dell’abbandono, delle fughe dal territorio, del deserto che si faceva intorno a noi. “Educavamo ” i nostri figli, fornendogli tutto ciò che era oggetto del loro desiderio. Si sono abituati all’agiatezza e i loro figli (nostri nipoti) hanno riempito ancora di più il boccale: soldi o come si dice “la paghetta”, regali tanti, studio poco, pretese molte, amici, amiche, la pizza, il viaggio senza quella famosa valigia.
Ignorano tutto ciò che è cultura, sanno digitare, e col “mi piace” hanno espresso la loro opinione. Se devono scrivere su FB, vanno a cercare (non so dove) una frase ad effetto e l’attaccano sulla pagina come se quella fosse il massimo della cultura. Sanno leggere? Sanno scrivere? Ne dubito: Il bar, il telefonino, possibilmente di ultima generazione, la partita allo stadio, il turpiloquio, gli “amorazzi”.
Sono quasi tutti professoroni che volutamente ignorano il nostro passato, recidono i ponti, parlano per frasi fatte e non hanno capito o fingono di non capire che ii soddisfacimento dei loro sfizi gratuiti è nato dalla fatica, dal sudore, dai sacrifici, dalle rinunce della nostra generazione che ha ricostruito l’Italia dopo lo sfacelo. Le nonne hanno sgobbato, zappato, faticato, sicché oggi , con la loro pensioncina, possono allungare la mano e dare 5 euro al nipote. Ma la nonna è mai andata al bar ai suoi tempi?
Ragazzi, se mi leggete, non maltrattatemi, non affibbiatemi epiteti sconci; riflettete, piuttosto, che ognuno è artefice del proprio destino Non aspettate, datevi da fare: domani potrebbe essere troppo tardi.
La casa me’
Sotte a lu castell ce stà la casa me,
quande m’affacce a lu balcone
ved’le muntagne a la Croce.
Ah! Quante eè belle, n’me sembr’vere;
ij me rallegre a r’mrarla,
lu core me se riempie de cuntentezza.
La notte de Natale,cocdune la và pure allumenà.
Chiù balle, a sant’Nicole,se sientene
Le campanelle de le pecure.
Lu venticielle d’primavera porte
L’addore de le manele e gli mile fiorite.
Mai me ne saziasse, anz’, a me che so
Nu quatralieglie nu pensiere me cale:
“Che Die ne me ne facce mai scurdà”.
La casa mia!
Sotto al castello c’è la casa mia,
quando mi affaccio al balcone
vedo le montagne con la Croce.
Oh! Quanto è bello, non mi sembra vero;
io mi rallegro a rimirarla,
il cuore mi si riempie di gioia.
La notte di Natale qualcuno la illumina pure.
Più giù, a San Nicola, si sentono
Le campanelle delle pecore.
Il venticello della primavera porta
Il profumo dei mandorli e dei meli fioriti.
Non mi sazierei mai, anzi, a me che sono
Un ragazzino un pensiero viene:
“Possa Iddio non farmene dimenticare”.
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[1] Maria Delli Quadri: Molisana di Agnone (IS), prof.ssa di Lettere, oggi in pensione. Ama la musica, la lettura e l’espressione scritta dei suoi sentimenti. In questa rubrica Maria volge lo sguardo sul mondo almosaviano e nascono pensieri e ricordi.
Editing: Enzo C. Delli Quadri
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E’ bello il tuo articolo. Io ho insegnato per 40 anni in un istituto industriale per 7 e il resto in una scuola media,nella quale ho fatto il vice preside per 19 anni. Ho cercato con tutti i mezzi, anche con la bonomia e l’ironia,di educare tre o quattro generazioni. Ma siamo noi in fondo che abbiamo creato le condizioni positive e sopratutto negative in cui oggi si trovano le nuove generazioni. Un mio nipotino di sette anni ha detto alla madre: “Io lo so perchè vuoi andare sempre a Galati(Galati Mamertino(ME) il paese nel quale abito): E’ per vedere i tuoi insulsi genitori.” Io voglio credere che non sappia il significato etmologico dell’aggettivo usato, ma credo che ne percepisca il valore e quindi ha una visione negativa di noi anziani.
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Grazie: questo volevo dire.
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cara prof MARIA DELLI QUADRI non sarò io a maltrattarti dopo la lettura del tuo articoli per una infinità di motivi: SONO DELLA STESSA TUA GRNERAZIONE, ho mangiato -e forse non sempre – minestre senza sapore; ho lasciato il mio paese; ho avuto figli ed ora nipoti a cui allungo spesso 50 euro; ho sudato con sacrificio ciò che posseggo—-poco del resto— ho commesso tutti gli errori e forse di più, insomma sono un dinosauro anch’io . Perciò capisco e condivido il tuo pensiero e ti scrivo per dirlo ..non mi limito al “MI PIACE” anonimo, e anzi senza anima, oltre che senza nome CREDO PERò CHE tanti giovani se appena appena riflettono ti ringrazieranno delle parole che hai scritto a loro e per loro.
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Cara Maria. Senza l’educazione, propria della tua generazione e di quella seguente, (la mia) questi sprovveduti sarebbero morti di fame o rimasti schiacciati da qualche potere che prevale sempre sull’ignoranza. Sono boriosi, saccenti e indisponenti; hanno dentro la violenza della “civiltà” che li ha pasciuti. Non credo riescano a capirci, non hanno più le basi proprie dell’educazione… Lo sculaccione e la cinta del nonno dovrebbero riprendersi il proprio ruolo, alla faccia di tutte le menate psicoterapeutiche!
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Io vi ringrazi. Non ricordavo che il pezzo fosse così bello.
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