di Mario Antenucci, tratto dal suo libro “Pane e Vino” [1]
A Rocca, il 17 gennaio si festeggia Sant’Antonio Abate (Sand’Andònie), il Santo eremita e povero, protettore degli animali e cose, che più si avvicina ai bisogni del povero contadino. Infatti egli lo invoca nel momento del bisogno, in caso di avversità atmosferiche o di malanni delle povere bestie.
Dopo la novena, la statua lignea del vegliardo, esposta nella chiesa madre di San Michele Arcangelo, ubicata al centro del paese, viene riportata in processione nella cappella a lui dedicata che si trova nella zona periferica del paese. Di pomeriggio, prima di essere condotta nella sua sede, la statua viene presa a spalle e in processioneè accompagnata in Piazza Portella. Ricordo che lì i contadini radunavano gli animali da lavoro, da soma e da allevamento per la benedizione che Don Duilio, il parroco, impartiva. Questi erano adornati a festa con barde, selle e pannelli di lino e lana molto colorati. Le parole che pronunciava, secondo la credenza, servivano a tenere gli animali lontano da pestilenze, fulmini e saette.
In questo giorno i contadini, vestiti con i migliori abiti, sembravano i padroni della terra. Gli anziani, mentre il celebrante alzava la croce ai quattro venti e pronunciava le fatidiche parole, partecipavano alla cerimonia con devota commozione e rispondevano alle preghiere con la convinzione che Sant’Antonio sarebbe stato al loro fianco nell’avverso destino. Finita la benedizione, i devoti soprattutto prendevano il Santo e, in processione, lo portavano in trionfo lungo le vie del paese, accompagnato dalla banda locale, composta da musicanti che suonavano più per praticità che per studio delle note musicali, e dal suono del campanone di San Michele. Prima che il simulacro del Santo venisse riposto nella nicchia, si accendevano numerosi “spari”, che sembravano illuminassero i paesi circostanti che in quel momento – pensavo – ci invidiassero per quanto di bello il nostro paese riusciva a fare. Nel frastuono e brusio generali un gruppo di cantori, al suono di strumenti musicali popolari quali il bufù, la raganella, il tamburello,la campana,intonava quella che ancor oggi si canta, dedicata a Sand’Andònie:
Sand’Andònie de Jennàre
mèzza paglia a lu pagliàre
lu pagliàre z’è ‘umbucate
Sand’Andònie z’è ne scappate
………………………..
E dal fuoco e dal demonio
ci difende Sand’Andònie.
………………..
Nel frattempo, brucia una grossa Farchia [2], appositamente preparata da volenterosi. Il suo ardere a me sembrava che volesse scacciare gli spiriti maligni dalle case e dalla vita dei poveri cristiani.
C’era l’usanza che il Comitato feste, alle fiere del 25 marzo o del 13 agosto di Canneto, acquistasse un maialino di una ventina di chili e poi lo lasciasse libero per il paese per il suo nutrimento. Tutti i paesani l’adottavano e, quando passava davanti alle case e metteva il grugno nella gattaiola posta alla base della porta, gli davano da mangiare i rimasugli di cucina o qualche pugno di fave. E così faceva al mattino e alla sera. Nei giorni di solleone, appena sazio, cercava un posto all’ombra e si coricava per riposare. Con i primi freddi, le famiglie, che durante l’autunno avevano allevato il maiale, si dedicavano ad esso e lo assistevano con abbondanti brodaglie miste di crusca, granturco e siero per farlo ingrassare nel modo più consono alle loro necessità. A gennaio, quando arrivava la festa del Santo, il Comitato vendeva il maiale ingrossato e con il ricavato contribuiva a pagarla.
Il giorno della festa del maiale– della sua uccisione – tre erano le condizioni che dovevano ricorrere affinché i prodotti che si ottenevano fossero di buona qualità e non andassero a male. Secondo le credenze antiche e le indicazioni del lunario di Barbanera l’uccisione del maiale doveva avvenire di mancanza di luna calante, la temperatura dell’ aria doveva essere secca e rigida, mentre le donne con il mestruo non potevano partecipare alle varie operazioni di salatura ed essiccamento della carne.
La festa iniziava il mattino, alla buon’ora, coinvolgendo la famiglia, i parenti e gli amici del vicinato. Ognuno di essi, durante i preparativi, tentava degli apprezzamenti circa il peso del povero maiale che di lì a poco avrebbe subito una brutta sorte. Tutti erano affaccendati: chi faceva bollire l’acqua in grosse caldaie, che sarebbe servita per la pelatura e la pulitura delle setole, della cotenna e dei visceri; chi preparava il paranco per appendere il sacrificato dopo l’uccisione. Si preparavano un grande tino di legno, una scala anch’essa di legno e i coltelli ben appuntiti ed affilati. Le donne approntavano i recipienti di ferro smaltato o di rame che avrebbero raccolto il sangue sgorgante dalla ferita mortale. Gli uomini presenti immobilizzavano il maiale legandogli gli arti e il macellaio, addetto all’uccisione, si avvicinava al suo corpo quasi inerme e vibrava un colpo preciso alla vena giugulare. Le donne, pronte, raccoglievano nei recipienti il sangue caldo per ricavarne del sanguinaccio essiccato, che ad ora di pranzo veniva soffritto con cipolle, javelìlle secco ed aglio. Parte del sangue caldo veniva mescolato a cacao, cioccolato, zucchero o miele per fare il farro. Era il momento che aspettavo di più perché lo gustavo sopra una fragrante fetta di pane. Mentre il maiale emetteva gli ultimi sussulti lo si prendeva e lo si stendeva sulla scala messa sul tino di legno per iniziare la pelatura. Gli uomini, mentre lo cospargevano di acqua bollente per ammorbidire le setole e a ben rasarle, di tanto in tanto tracannavano un bicchiere di vino che alleviava la fatica e asciugava il sudore provocato da nuvole di vapore dell’acqua calda. Finita la pelatura, gli uomini prendevano il corpo del maiale e infilavano le sue zampe posteriori ben divaricate nel gammelliere. Era il momento della squartatura: il macellaio divideva le varie parti in maniera precisa e professionale; le donne provvedevano a svuotare i visceri, a lavarli accuratamente con acqua e sale e poi conservarli con acqua ed aceto.
La sera era il momento gioviale della giornata. Ci si riuniva intorno ad una grande tavolata per una succulenta mangiata di mezzi ziti – maccheroni – conditi con ragù del fresco maiale e pancetta soffritta e cosparsi di abbondante formaggio pecorino. Seguiva il soffritto di spezzatino delle varie frattaglie(cuore, polmoni, fegato, milza con la rezza).La tavola era ripiena di pane fresco sfornato il giorno prima e il tutto era benedetto da boccali di vino rosso dell’ultima annata.Dopo si cantava, si ballava, si intrecciavano relazioni amorose, si raccontavano storielle, si scambiavano idee e pareri su persone e fatti di vita paesana. Tra una portata e l’altra, al fuoco del camino, arrostivo i pezzetti di carne insaporiti di molto sale e ne gustavo il profumo e la genuinità. I commensali nel frattempo dissertavano sul maiale, sul suo peso portando a paragone quelli di altre famiglie.
Il giorno dopo si “depezzavano” le carni secondo il prodotto che si voleva ottenere: dai prosciutti ai “tocchi”, a quelle per le soppressate, le salsicce e “ventresche”. Quando si passava ad insaccarle, mi premuravo di aiutare la mamma e le sorelle a legare con lacci gli insaccati e così anch’io partecipavo a confezionare i prodotti che, a tempo opportuno, avrei mangiato. Da piccolo e da quelle storie narrate dagli anziani ho imparato a vivere in comunione. Ho imparato ad apprezzare il loro rispettoso silenzio e la loro umiltà. Ho imparato a saper ascoltare prima di parlare. Ho imparato il sale della vita.
La festa del maiale era l’occasione per riallacciare legami interpersonali, interfamiliari, caso mai interrotti.
Ai tempi della mia infanzia, il paese era una realtà fatta di piccole cose e di gente semplice, dove il medico, il parroco, il sindaco, il segretario comunale erano le persone alle quali tutti facevano riferimento come autorità da rispettare e da tenere in considerazione per la loro istruzione. La povertà e la vita dura accomunava i contadini che si sentivano più solidali nel poco che possedevano. Nei lavori dei campi si aiutavano a vicenda.
[1]Pane e Vino, un libro molto prezioso , nella cui premessa si leggono queste frasi significative: “Un tozzo di pane e una ciotola di vino, per pochi, erano i componenti essenziali della nutrizione negli anni difficili della rinascita. Pochi tenevano sia l’uno che l’altro, sul desco, per ristorarsi nei giorni del solleone e per consolarsi intorno al camino nei giorni freddi dell’inverno. Pane e vino costituiscono gli elementi sostanziali della liturgia nel Cristianesimo. “Senza di essi non si canta messa”, così si diceva e si dice ancora. Per dirla con Nedo Fiano, il mio intento è quello di “conservare, custodire e trasmettere la memoria”. Credo “fermamente nel dovere del ricordo perché il nostro passato è, in qualche maniera, memoria del futuro”.Chi fosse interessato ad avere il libro può scrivere a: m.antenucci1947@gmail.com
[2]farchia, grosso fascio di canne legate ad arte, manualmente, con rami di salice rosso. Ha una consistenza di circa 80 cm. di diametro e circa 8 metri di altezza.
Copyright: Altosannio Magazine
Editing: Enzo C. Delli Quadri