Pillola di folklore 8 – Monelli di altri tempi

di Domenico Di Nucci
tratta da “Agnone, il paese dov’era sempre mezzogiorno”[1]

Non ricordo quale giorno di festa fosse, ma già sposato e con prole, ero nella rivendita dei miei genitori a servire clienti. Senza che me ne accorgessi, un distinto signore oltrepassò il “bancone” e, presomi per un orecchio, mi colpì scherzosamente con un calcio nel sedere. Sorpreso e confuso, guardai in faccia chi, con un bel “finalmente”, mi sorrideva soddisfatto!

Dopo l’attimo di smarrimento, misi a fuoco quel viso e…finalmente, Michele il finanziere, che abitava proprio di fianco alla chiesa di San Biase, nella casa dell’orefice Lucci, finalmente era riuscito ad “acchiappare” uno dei pestiferi monelli che tanti pomeriggi di pennichella gli aveva interrotto, insieme a scalmanati compagni di giochi e di avventure.

Aveva impiegato quasi 30 anni per mettere in atto la sua vendetta e meno male che non mi aveva mai “acchiappatǝ” quando, furioso come un toro, usciva da quel portone verde rincorrendo invano quella nuvola di ragazzi che, raccattato il prezioso pallone, spariva immediatamente per ricominciare a giocare, vocianti più che mai, subito dopo la sua sfuriata.

Eravamo in tanti e la strada era la nostra palestra, il nostro campo di giochi, la nostra maestra; per strada oltre a giocare, ci si picchiava, si intrecciavano amicizie, si cresceva. Toccare il naso all’avversario di turno equivaleva ad un gesto di estrema provocazione ed era l’inizio delle ostilità; tutto era permesso: calci, pugni, schiaffi, spintoni…qualche occhio nero e la fuoriuscita del sangue dal naso erano il segnale della fine del mécciǝ (chiaro riferimento all’analogo vocabolo inglese). Alcuni mécciǝ sono rimasti scolpiti nella mente dei tanti monelli che oggi viaggiano tutti oltre la settantina; prima di picchiare qualcuno era bene fare mente locale sulla consistenza della famiglia e sulle eventuali continuazioni dello scontro con i fratelli più grandi dell’avversario di turno.

Davanti a San Francesco iniziò la scazzottata tra Italuccioǝ Cicciòttǝ (Italo Balbi)e Benito Ru Gǝnǝralǝ (Benito Lemme)(purtroppo entrambi prematuramente deceduti, l’uno per un incidente stradale e l’altro in Canada per una grave malattia); il tutto cominciò perché Italuccio aveva osato picchiare, non so perché, Giovanni, fratello minore di Benito. Sapevamo tutti che Benito aveva un debole nel suo naso che appena toccato riversava fiotti di sangue; sapevano tutti che se lo scontro durava poco, l’agilità di Italucciǝ avrebbe avuto la meglio contro la forza di Benito come sapevamo tutti che era pericoloso cercare di dividerli sia perché erano più grandi di quasi tutti noi sia perché chi andava a dividere spesso le prendeva da tutti e due. Quindi per gioco o per forza lo scontro finì quando i due, dopo un lungo pestaggio, stremati e malconci non ebbero più forze. Secondo noi giudici imparziali le prese di più Italucciǝ anche se nei giorni successivi l’uno girava con una vistosa “papagna” (naso gonfio e tumefatto), l’altro con un consistente e evidente “balcónǝ”(occhio nero). Gli asti e le recriminazioni però duravano pochi giorni; poi, passata velocemente la rabbia in corpo, amici come prima.

Circolavano soltanto due automobili, la Topolino di don Ciccio D’Onofrio e la Balilla di don Federico Labanca ed entrambi annunciavano il loro arrivo con sonore strombazzate. Il cosiddetto progresso non aveva ancora portato ancora l’acqua corrente in ogni casa, della televisione tutti ignoravamo l’esistenza. La radio del Dopolavoro (Circolo Acli) era l’unica fonte di notizie alla nostra portata; Bartali e Coppi tenevano desti i tifosi con le imprese al Giro e al Tour; la domenica, l’appuntamento con la radiocronaca delle partite di campionato, dava il via agli sfottò… tribolava Nicola Drupacandiunǝ (Patriarca) quando perdeva la Roma…si rabbuiava Gennarino Tatà (Minale) quando il suo Napoli le buscava e succedeva molto spesso! Le odiate Juve, Inter e Milan imperversavano e lo scudetto era un loro affare privato. Tutti gioimmo nel 1956 quando la Fiorentina di Virgili, Gratton e Montuori ruppe il monopolio!

La noia era qualcosa di sconosciuto per quei monelli che una ne facevano e cento ne pensavano; se non si giocava a pallónǝ, si giocava a pallucciǝ, a cuccavallǝ, a cucciarèllǝ, a bagginǝ, a palméttǝ, a papéttǝ, a bicinì, a libbérà, a mosca ciéca, a rǝ quattrǝ candiunǝ, allo schiaffo del soldato, a murillǝ, a mundariéllǝ, a scópa, a tréssèttǝ, a tréssèttǝ a chiamà, a tréssèttǝ a pèrdǝ, a sèttǝ e miézzǝ, a palpanéttǝ e zumma, a ru sticchiǝ, a mazza pǝzzòttǝ, a pappà,alle belle statuine, a zómbacavallǝ, a scópa acchiappà, a scugnǝrǝllaunǝ, a scópa a nascónne, a brǝgandǝ e carabbǝniérǝ, a èsciǝ mastrǝ gǝròlamǝ, a trèxe d’inverno, dopo quelle belle nevicate, a pallóttǝ e a sciusciǝnarèlla!

Nelle giornate di sole, ci davamo appuntamento a ru Murgiaunǝ o alla Sciata per un rinfrescante bagno nelle allora pulite e gorgoglianti acque del Verrino o del Vallone del Cerro. Facevamo il bagno nudi; una rapida asciugata sulle calde mòrgiǝ e poi via di corsa per il ritorno… il tutto senza che i nostri genitori se ne accorgessero! Anche la vasca della fontana di Piazza Plebiscito invitava a spassose battaglie d’acqua.

Freccette, fionde, cerbottane e archi erano le armi di uso comune; le freccette, ricavate da pezzi di manici di scopa, con un chiodo in punta e penne di gallina in coda erano  precise e pericolose  anche se  mai  nessuno subì danni; le fionde, con elastici rimediati da qualche camera d’aria di bicicletta o di macchina, erano di una tale imprecisione che quasi mai consentivano di centrare i bersagli; i fogli inutilizzati erano la materia prima “pǝ rǝ cuppǝtiégliǝ” sparati da cerbottane ottenute arrotolando le copertine nere dei quaderni; l’arco e le frecce richiedevano una lunghissima preparazione, datosi che la materia prima era fornita dalle stecche di duro acciaio di qualche vecchio ombrello; per appuntire le frecce su pietre morte abrasive ci consumavamo praticamente la punta delle dita…però poi, scagliate verso i portoni di case abbandonate o verso i portali delle chiese si conficcavano magnificamente! E i tarli del legno venivano ingiustamente incolpati per…tutti quei buchi! Caccióttǝ di frutta integravano la dieta povera di vitamine.

Certe sere poi, quando non si sapeva più come giocare, partendo da San Marco, proseguendo verso San Pietro e percorrendo Via Lucci di corsa, come una banda di scalmanati, suonavamo i pochi campanelli elettrici ed i tanti battocchi dei portoni…e le strade si riempivano di una serie di “chi è” senza risposta.

Ogni tanto però qualche scapaccione serviva a raffreddarci i bollenti spiritacci; alla fin fine eravamo bravi ragazzi, anche se ne combinavamo di tutti i colori.

 

 

 


[1]  In questo libro,Domenico, nativo di Capracotta, abbandona la nostalgia per i posti a lui familiari e si immerge nel territorio scelto da suo padre detto Carmǝnuccǝ ru salaruólǝ, (usava dire: La tua patria, è il posto dove stai bene. E scelse di vivere in Agnone). Tesse, così, un arazzo intrecciato dai variopinti fili della storia, del folclore, dell’aneddotica e dei ricordi che vengono esposti intre sezioni:  Pillole di Storia, che o vanno a colmare lacune e omissioni dei testi finora pubblicati o sono degli inediti, convinto di dare così un apporto costruttivo al grande mosaico che è la storia di Agnone; Pillole di Folclorecon l’evidenziazione di usi e costumi persi nel tempo, come le “cacciòttǝ” di frutta, il fuoco di San Michele, La scuracchjéata, la frasca, la candóina, la passatella, e altri; Personaggi, tratteggiati con perizia, maestria e malinconia perché conosciuti da vicino oppure attraverso i loro racconti. Le foto provengono dal suo archivio e da archivi privati; le parole o le frasi contenute tra due parentesi sono sue note. Cliccando su questo link potrete accedere alla Prefazione e all’Introduzione del libro http://www.altosannio.it/agnone-il-paese-dovera-sempre-mezzogiorno-prefazione-e-introduzione/.Chi fosse interessato al libro può scrivere a dinucci.domenico@gmail.com.

EditingEnzo C. Delli Quadri
Copyright: Altosannio Magazine 

 

 

 

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Un pensiero riguardo “Pillola di folklore 8 – Monelli di altri tempi

  1. Divertente,spassoso e bel racconto “maschilista” quasi …eh, già perchè i numerosi giochi ricordati,ad eccezione delle “belle statuine! son quasi tutti per “ragazzi”
    Ragazzi “puliti” che non disdegnano di “lavare il sangue” nel gorgogliante Verrino…L’immagine si fa presente e viva subito del fiume e di una “morra” di ragazzi spensierati! Cosa certo impensabile al tempo per le ragazze!

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