di Mario Antenucci,
tratto dal suo libro “Pane e Vino” [1]
In primavera il sole scioglieva le ultime nevi, il grigiore invernale scompariva e la natura si svegliava dal profondo torpore. All’alba il silenzio della notte si apriva alle voci del nuovo giorno con il canto del gallo e con i tintinnii di sonagli e di arnesi agricoli che i contadini preparavano e caricavano sugli asini e sui muli. Lo scalpitio e lo sferrìo degli zoccoli di questi quadrupedi svegliavano dal sonno tutti quelli che si incamminavano per dare inizio alla giornata di lavoro. Tutto il paese si animava di un vocìo chiassoso e allegro.
Noi avevamo due mule, Rosina e Peppinella, acquistate da mio padre per la sua azienda boschiva, che venivano governate da zio Giovanni, nostro uomo di fiducia, e che una volta pronte venivano avviate per la raccolta della legna tagliata e accannatanel bosco. Cessata l’attività di impresa boschiva, gli stessi quadrupedi venivano utilizzati nell’azienda agricola, che nel corso degli anni era divenuta fiorente e stava dando i suoi frutti.
In aprile, quando l’aria era divenuta più tiepida, i miei genitori chiamavano a giornata le braccianti del paese per far mondare i campi di grano e di fave infestati da ogni tipo di erbacce. La sarchiatura assicurava ai prodotti seminati una sana crescita e al coltivatore un buon raccolto. L’operazione durava una ventina di giorni.
A colazione mia madre chiamava a raccolta le lavoranti e condivideva con loro il pane preparato e farcito con frittata, salsicce e peperoni e il vino contenuto in fiaschi o ciotoledi terracotta.
Era il momento in cui si scambiavano opinioni e speranze sul raccolto e sull’annata in generale. Mentre si consumava la colazione, ripensavo a ciò che i miei nonni mi avevano raccontato riguardo alle condizioni di quelli che prestavano la loro opera alle dipendenze dei cosiddetti signori, quelli con la pelle bianca che stanno con le mani in mano dalla mattina alla sera. Essi non sono come i contadini che al tempo del solleone bruciano la loro pelle sotto i raggi sferzanti del Sole: insomma quelli che guardano “la vita dall’altro lato del cannocchiale” e che i contadini guardano con dignitoso rispetto. Nella nostra azienda venivano a lavorare ben volentieri perché erano trattati da figli di Dio e non da bestie da lavoro soltanto.
Poi arrivava la Pasqua, che portava con sé la verde e variopinta stagione e significava anche la rinascita della natura. Durante la Settimana Santa, fatta solitamente di giornate cupe, quasi sempre fredde e tristi, si sentiva nell’aria un bel clima di festa e di gioia.
Mi passa nella mente l’immagine delle croci coperte e dei Santi ammantati dentro le nicchie della chiesa, dei suoni dissonanti delle tric e trac e delle raganelle che, a gruppi, portavamo in giro per le strade del paese a richiamare i fedeli ai riti religiosi. Anche se era un momento che aspettavamo e che preparavamo con largo anticipo e con entusiasmo per la sua particolarità, esso ci riportava alla consapevolezza della morte.
Tanto più opprimente era stata l’atmosfera della settimana di passione tanto più colorata e giuliva era la mattina di Pasqua: destarsi al suono dello scampanio festoso delle campane, finalmente sciolte, con il cinguettio dei passeri e i colori dei mandorli in fiore. In queste cose vivevo la Resurrezione: l’esplosione della natura che usciva dal turpe inverno e la gioia di andare a nuova vita. Dalle case uscivano profumi di dolci tipici. Per le rue del paese, le massaie si incrociavano salutandosi allegramente e si scambiavano gli ingredienti per fare la pigna.
C’era l’usanza che per la Pasqua si preparasse una varietà di dolci fatta di pasta frolla non lievitata ricoperta di naspro –glassa – e confettini variopinti che per i maschietti avevano la forma di cavalluccio e per le femminucce quella di una bambola. Sulla loro pancia veniva messo un uovo, simbolo della fertilità, e poi venivano messi al forno per la cottura. L’uovo veniva fermato con due strisce della stessa pasta a forma di croce.
Il giorno di Pasqua i due dolci venivano portati dai bambini alla messa per farli benedire. Una volta benedetti venivano consumati a pranzo dai commensali della tavola o nel giorno della scampagnata del Lunedì dell’Angelo. Molto spesso qualche bambino, scherzando,chiedeva ad un altro: “Posso dare un bacino al tuo cavalluccio o alla tua bambola?”; con il bacino mordeva il dolce moncandolo di un braccio o di un piede, rompendo la confezione. Ne nasceva sempre una rissa nella quale i due si tempestavano di pugni e schiaffi. Nella baraonda i vestiti, molto spesso, si strappavano e le ginocchia sanguinavano per le ferite riportate.
Solo la sacralità del giorno riusciva a ricomporre la pace ed ognuno tornava nella propria casa per festeggiare la Pasqua insieme ai genitori, fratelli e sorelle.
[1]Pane e Vino, un libro molto prezioso , nella cui premessa si leggono queste frasi significative: “Un tozzo di pane e una ciotola di vino, per pochi, erano i componenti essenziali della nutrizione negli anni difficili della rinascita. Pochi tenevano sia l’uno che l’altro, sul desco, per ristorarsi nei giorni del solleone e per consolarsi intorno al camino nei giorni freddi dell’inverno. Pane e vino costituiscono gli elementi sostanziali della liturgia nel Cristianesimo. “Senza di essi non si canta messa”, così si diceva e si dice ancora. Per dirla con Nedo Fiano, il mio intento è quello di “conservare, custodire e trasmettere la memoria”. Credo “fermamente nel dovere del ricordo perché il nostro passato è, in qualche maniera, memoria del futuro”.Chi fosse interessato ad avere il libro può scrivere a: m.antenucci1947@gmail.com
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Editing: Enzo C. Delli Quadri