Storia romanzata [1] di Paride Bonavolta
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124 – 105a.C.– Herio passa una esperienza indimenticabilenell’inospitale località segreta della Maiella – Si parla solo Osco – il suo amico Mutilo traccia le condizioni di inferiorità che i romani impongono ai sanniti – il concetto di nazione italica va sovrapponendo ad atavici particolarismi – Herio torna a casa e fa in modo che i giovani alle sue dipendenze conoscano l’arte della guerra – Conosce e si relaziona con Emiliana, figlia del suo guardiacaccia – Prende a viaggiare per le terre sannite – C’è rancore contro i romani – Il Sannita Metello vuole insorgere contro Roma – Quinto Poppedio Silone, portavoce dei Marsi, vuole convincere Roma a concedere la cittadinanza dimostrando lealtà – Dopo la battaglia di Aurasio, in Francia, Quinto Poppedio Silone confessa la sua cocente delusione – I popoli italici si preparano a insorgere contro Roma.

– L’anno che seguì fu per Herio un’esperienza indimenticabile perché, così come era stato per lui programmato, lo passò nell’inospitale località segreta della Maiella dove clandestinamente si addestravano nuovi volontari sanniti.
L’addestramento che ricevette fu estremamente duro ma dopo un primo periodo iniziale che fiaccò la resistenza di non pochi uomini tutto sembrò diventare più facile. All’iniziale abbrutimento dei primi periodi subentrò fra i presenti un grande cameratismo che spesso portava a concludere le giornate con canti e rievocazioni degli eventi più salienti della vita e della storia del popolo sannita.
Faceva piacere sentire solamente l’osco, consumare solo pasti tipici della cucina sannita, rivivere usanze e tradizioni che ovunque, salvo che lì, sembravano avviate ad una fase di oblio.
In quel campo Herio ebbe molto spesso occasione di sentire ricordata l’opera di suo padre e soprattutto constatare come la memoria dei suoi antenati fosse ancora viva per il ruolo che avevano avuta nella storia nazionale. Molti, e questo inizialmente lo stupì non poco, lodavano soprattutto Gavio, il primo dei suoi antenati che non avesse combattuto contro ma con i romani, ma a lui tutti sapevano di dover molto per l’impegno dedicato a mantenere viva, nel periodo più oscuro del Sannio sconfitto, la memoria di una storia sannita ben diversa da quella che i romani cercavano a loro vanto e favore di accreditare.
Herio si stupì della diffusa conoscenza di quelle memorie che forse solo lui ignorava mentre nel Sannio, sicuramente ad opera di suo padre, tutti sembravano avere assimilato. Nel campo si era ovviato anche agli inconvenienti che sarebbero potuti derivare dall’assoluta mancanza di donne e a periodi predeterminati arrivavano piacevoli schiave che fornivano con gioia il loro amore mercenario a quella selezionata gioventù. La disciplina si mantenne sempre ferrea sotto la guida di Mario Egnatio che periodicamente provvedeva a ripartire le sue giovani reclute in gruppi che una volta formati sembrava impaziente di scomporre così da renderne più generalizzato l’affiatamento.
Herio si legò a due coetanei Ponzio Telesino e Caio Trebazio che divennero i suoi migliori amici. Frequenti erano anche le visite di Mutilo che controllava con occhio vigile i loro progressi e che concludeva le visite con elogi, rimproveri e consigli. E a conclusione del lungo periodo di addestramento fu lo stesso Mutilo ad indirizzare ai suoi un toccante messaggio conclusivo riguardante le condizioni cui i romani sottoponevano i sanniti.
-Voi sarete, se sarà necessario, i futuri quadri di un esercito che forse un giorno potrà essere chiamato ad affrontare in armi i romani. Ma ricordate che se anche oggi siete stati preparati a diventare dei soldati non escludo che un domani possa raggiungersi una intesa con Roma se saprà rivedere il suo attuale atteggiamento e se cesserà di considerarci dei vinti e soprattutto degli inferiori. Non è escluso a quel punto che potremmo, perché i tempi portano in quella direzione, rivedere il nostro atteggiamento e cercare di costruire il nostro futuro insieme a questa grande nazione che, anche se con una politica ottusa e vessatoria, ha finito per riunire tutti i popoli italici. Certo oggi la realtà è quella che tutti abbiamo sotto gli occhi e che ci discrimina. Non ci è permesso aspirare a contratti di fornitura di beni allo stato, non possiamo contrarre matrimonio con cittadini romani, non possiamo adire la magistratura né appellare le sentenze emesse in nostro danno, assistiamo all’esproprio dei nostri beni e spesso anche le nostre donne possono essere considerate come un bene espropriabile. La nostra patria è costellata di colonie che fungono da sentinelle contro le nostre più legittime aspettative, i nostri soldati, che oltre che forniti dobbiamo anche mantenere a nostre spese, versano il loro sangue in guerre combattute per scopi ed interessi che nessuno ritiene di dover loro comunicare e devono essere comandanti da cittadini romani che troppo apertamente li considerano carne da macello. Un romano si vede riconosciuto il diritto di fustigarci senza dover adire nessun tribunale. Non c’è vittoria o trionfo di Roma il cui merito non sia dovuto al nostro sangue o a quello di soldati italici ma nessuno ci da atto di questo. Siamo coperti di tributi che volutamente non vogliono tener conto del fatto che le nostre campagne sono prive di braccia e che quindi spesso sono improduttive. Dobbiamo soggiacere senza protestare ai ladrocini degli avidi amministratori romani che continuano a derubarci ad ogni livello. Perfino coloro cui sono stati concessi i diritti latini ci considerano loro inferiori anche se storicamente e realisticamente questo è un vero anacronismo. E’ per porre fine a tutto questo che vi state preparando ricorrendo, se del caso, alle armi. Non nutro molta fiducia che la situazione possa migliorare ma voglio ancora nutrire una speranza in tal senso. Basti vedere come molti di noi, fra coloro che avevano acquisiti diritti latini o soggiornavano a Roma, sono stati espulsi da quella città come se la loro presenza potesse infangarla. Confesso che avevamo in molti sperato che un lungo soggiorno a Roma od in una colonia potesse aprirci un domani la via alla cittadinanza ma ora la legge di Marco Junio Penno ha frustrata una tale speranza. Invano Tiberio Gracco viaggiando per le terre dei “sudditi” di Roma ha lottato con le palesi ingiustizie che ovunque riscontrava. Nessuno ci ha ridato il terzo delle nostre terre che ha costituito l’ager publicus ma anzi molti dei nostri agricoltori si sono visti costretti a rinunciare alle loro terre in favore di ricchi cittadini romani che mai le vedranno o le visiteranno perché le reputano e le detengono solo come un proficuo investimento. Questo fa si che si é arrivati a sostituire i più poveri dei nostri fratelli, un tempo proprietari di quelle stesse terre, con schiavi che consentono un ulteriore risparmio. La nostra economia continua ogni giorno a declinare mentre i commerci ci sono interdetti permettendo a chi da cittadino esercita il commercio di derubare ulteriormente la nostra gente. Molti di voi mi hanno sentito ripetere queste parole più volte, altri le ascoltano per la prima volta. Non ho voluto esagerare né creare illusioni. Quando tornerete alle vostre case ricordate tutto questo e se un giorno sembrerà essere giunto il momento della nostra riscossa ritornate a noi in quanto le vostre giovani menti, il vostro entusiasmo e la vostra giovinezza sono l’unico bene che Roma non potrà mai sottrarci. I contatti saranno mantenuti, ma provvedete anche personalmente a mantenerli direttamente, ove possibile, tra di voi
Gli addii che seguirono se da un lato furono gioiosi come potevano esserlo tra affiatati camerati furono anche velati dalla tristezza delle parole di Mutilo che così bene avevano descritto il mondo nel quale sarebbero tornati. Unica consolazione era dovuta al fatto che ognuno ora aveva la certezza di non essere più solo e che potesse esserci ancora un barlume di speranza.
Herio che aveva più direttamente vissuto a contatto con Mutilo e con Mario Egnatio non poté non notare che nel discorso di Mutilo si era fatto solo un breve cenno ad una nazione italica in quanto il discorso era stato quello di un sannita ad altri sanniti. Ma forse era troppo presto per far assimilare questo concetto che si andava sovrapponendo ad atavici particolarismi. Herio fu pregato di attendere a partire e lo stesso Mutilo gli fornì i nomi di futuri contatti fra le altre genti italiche.
-Dicendoti questo ti ho messo a parte della cosa più preziosa della quale oggi disponiamo. Tu sai che se una speranza ancora potrà sussistere per la nostra gente questa è legata ad una intesa più vasta fra le genti italiche. Fai quindi buon uso di quanto ti è stato detto. Con te manterremo particolari contatti perché confidiamo molto nella tua opera.
Herio fu lusingato di essere stato messo a parte di cose che altri non avrebbero dovuto conoscere e vide in questo un sicuro segno della fiducia che i suoi amici riponevano in lui ed in cuor suo si sentì certo che sarebbe stato sempre all’altezza dell’impegno assunto.
Il rientro a casa fu accolto da Metello come se non fossero affatto trascorsi due anni. La mattina dopo il suo arrivo, Metello, sempre premuroso e solerte, si presentò con i libri contabili per rendere conto della sua gestione.
– Padrone– Metello lo aveva sempre chiamato così-vorrei che tu controllassi i registri.
-Ma Metello non l’ho mai fatto e non vedo perché dovrei farlo proprio ora.
-Permettimi di insistere padrone. Prima eri un ragazzo ma ora sei un uomo.
-Va bene Metello guarderò i tuoi conti ma prima dimmi di Emiliano, il guardiacaccia, non l’ho ancora visto in giro.
-Emiliano è morto poco dopo la tua partenza.
-Povero Emiliano, solo ora mi accorgo che sapevo molto poco di lui. Aveva dei figli?
-Un maschio ed una femmina che credendo di far bene ho messo a lavorare nelle tue terre.
-Certo hai fatto bene. Allora guardiamo questi conti.
Sotto la guida del liberto si immerse nella non facile contabilità che, se pur meticolosamente tenuta, almeno inizialmente, gli sembrò al di sopra delle sue capacità. Man mano che familiarizzava con le singole voci saltò palese ai suoi occhi che gran parte delle entrate erano assorbite da una serie di tributi versati agli esattori romani.
– La parte prelevata da Roma mi sembra veramente esosa– notò.
– E’ sempre stato così; solo che ora gli esattori si sentono sempre più sicuri dei mancati controlli in sede centrale e calcano la mano a loro favore e a favore dei loro superiori e questi, da buoni clienti, devono sdebitarsi con chi a Roma ha procurato loro l’incarico. E contro questo– constatò Metello con amarezza-non abbiamo alcuna difesa.
-Vedo che la più parte dei giovani è lontana per assolvere agli obblighi militari nelle legioni romane. Vorrei che tu d’ora in avanti pagassi per il loro esonero.
–Questo ci costerà parecchio padrone. Ma ovviamente farò il possibile.
-Vorrei inoltre che tu riunissi i nostri giovani un paio di volte alla settimana diciamo per. . . attività sportive.
-Attività sportive?-si meravigliò Metello senza però ricevere maggiori dettagli.
-Cercami anche qualche veterano, se ce ne sono, e ufficialmente registralo come guardiacaccia.
Metello non obiettò ma sicuramente dovette intuire cosa si celasse dietro queste insolite richieste. Nulla doveva infatti sfuggirgli e sicuramente era a conoscenza dell’adesione del suo padrone alla rivolta di Fregelle e del successivo periodo trascorso tra i monti. La sua riservatezza e la paura di travalicare i suoi compiti furono sufficienti per ritenere chiuso l’argomento.
Con l’aiuto del nuovo guardiacaccia e con il pretesto di una attività venatoria su vasta scala Herio si dedicò all’addestramento dei giovani del suo villaggio.Tra le sue “reclute” presto notò, e sarebbe stato impossibile non notarlo, un giovane di eccezionale prestanza fisica che emergeva su tutti per l’impegno.
Non sembrandogli un viso familiare lo chiamò volendo sapere di più sul suo conto.
-Come ti chiami?
-Sono Placidio, mio padre era Emiliano il tuo guardiacaccia.
-Avrei dovuto immaginarlo vista la tua abilità nel maneggio delle armi. Sembra proprio che tu non abbia più nulla da imparare. Vorrei che mi accompagnassi nei viaggi che ho intenzione di intraprendere a breve. La tua presenza mi sarà senz’altro utile e sono certo, come lo ero con tuo padre, di poter contare sulla tua lealtà e discrezione.
-Siine certo signore!
– Metello mi ha detto che hai una sorella e che lavora nella nostra casa.
-Emiliana, così si chiama mia sorella, è una delle lavandaie.
Herio individuò la ragazza giorni dopo quando, camminando con Metello lungo il fiume vide un gruppo di donne che provvedeva a lavare i panni. Fu certo di non sbagliare perché la ragazza assomigliava inequivocabilmente al fratello. Alta più della media aveva una figura ad un tempo atletica e molto femminile ed il viso, decisamente molto bello, era incorniciato da una gran massa di capelli ramati che sottolineavano la regolarità dei suoi lineamenti. La ragazza indossava una tunica che doveva essere appartenuta a qualcun altro, forse alla madre, e che era stata chiaramente adattata perché era fin troppo evidentemente piccola e corta oltre ad essere una vera e propria ragnatela di cuciture e rattoppi che rendevano quasi miracoloso il fatto che potesse ancora essere considerato un abito. Metello notando che l’attenzione del padrone era stata attratta dalla ragazza dovette intuire che aveva riconosciuto in lei la sorella di Placidio. Si ritenne perciò autorizzato a fornire particolari che non gli erano stati richiesti.
–Emiliana ha diciotto anni. Il suo promesso sposo, uno dei tuoi pastori, è al momento nelle legioni romane e vi dovrà restare per i prossimi cinque anni, sempre che sia fortunato e che possa ritornare. La ragazza è. . . come dire. . . discreta e fidata-aggiunse con un sorriso che lasciava chiaramente intendere a cosa alludesse-Tu sai bene padrone che io non ho interesse per le donne ma capisco bene come tanta bellezza possa averti colpito. Se vuoi. . le parlerò per tuo conto.
-Non ti pago certo per farmi da ruffiano-replicò Herio seccato. –Non ho bisogno di ruffiani se dovessi decidere di cercare compagnia. E comunque non pensavo certo a questo. . Mi spiace dovermi accorgere solo ora che il buon Emiliano non abbia potuto lasciare molto ai suoi figli se la ragazza deve vestire panni così miseri. Provvedi, discretamente, a trovarle un altro lavoro ed assicurati che i figli di Emiliano possano vivere con maggiori mezzi.
–Scusami padrone-si schernì Metello.
-Scusami tu Metello non volevo essere offensivo. Indubbiamente, e tu lo hai subito capito, la ragazza ha fatto colpo su di me ma questo non significa certo che io intenda vantare delle pretese su di lei.
–Certo padrone ma. . .-Metello esitò incerto se aggiungere altro- per lei sarebbe comunque un onore.
Emiliana fu destinata ai servizi di casa ed Herio sempre più spesso ebbe occasione di incontrarla e ben presto finì per prendere il posto di uno dei preferiti di Metello che fino allora era stato al personale servizio di Herio.
Herio, pur rendendosi conto delle non troppo celate manovre di Metello, pur provando piacere nel vedersi di torno la ragazza, ostentò con lei un disinteresse che in pratica non aveva affatto. Doveva essere Placidio a porgli nuovamente il problema di Emiliana.
-Sono felice che mia sorella sia al tuo servizio. Questo mi rende più tranquillo. Emiliana è sempre stata una ragazza troppo bella, l’essere vicina a te scoraggerà chiunque volesse importunarla.
La frase suonò ad Herio come un tacito benestare di Placidio ad una diversa evoluzione dei rapporti tra lui e la sorella ma ancora una volta volle convincersi che nulla sarebbe cambiato. Ma il suo rapporto con Emiliana era destinato a prendere proprio quella svolta che tutti sembravano ritenere la più ovvia.
Una mattina, che di buon’ora Herio aveva lasciata la casa per un viaggio a Terventum, lungo la via accortosi di aver dimenticato la borsa con le monete, era tornato indietro. Entato nella sua stanza, e preso quanto aveva dimenticato, stava per uscire quando sentì nell’adiacente stanza dove essendo stata collocata una gran vasca era solito prendere il bagno una voce melodiosa cantare una canzone popolare. D’istinto entrò e rimase di stucco vedendo Emiliana immersa nella vasca. La ragazza voltava le spalle alla porta e quindi non poteva accorgersi della sua presenza. Le spalle nude e le braccia levate alternativamente in alto nell’atto del lavarsi catturarono l’attenzione di Herio che rimase immoto e silenzioso sulla porta.
Emiliana, sempre di spalle, si tirò su dall’acqua e la sua splendida figura scatenò in Herio un gran desiderio. Sempre di spalle Emiliana iniziò a lavare la parte inferiore del suo corpo con gesti che ad Herio sembrarono una carezza sensuale. Le mani di lei indugiarono sui glutei, penetrarono tra loro e si portarono poi in avanti per lavare la sua non visibile femminilità. Per una strana percezione, perché Herio non aveva prodotto alcun rumore, Emiliana, quasi si sentisse osservata, girò il viso verso la porta accorgendosi di lui. Il suo viso mostrò sorpresa e terrore e la ragazza girandosi verso di lui, dimentica della sua nudità, mormorò parole di scusa.
-Perdonami padrone. Puoi battermi per il mio comportamento! Lo merito.
Tacque tuttavia, leggendo nello sguardo di Herio un chiaro apprezzamento per il suo corpo. Senza muoversi ne accennare a coprirsi lasciò che i suoi occhi si impadronissero dalla sua nudità poi uscì dalla vasca muovendo verso di lui.
–Se mi desideri ne sarò felice. -annunciò francamente e poi, interpretando il suo silenzio come una tacita acquiescenza, gli si avvicinò e stringendosi a lui senza parlare prese a spogliarlo. Quando fu nudo e chiaramente eccitato con gesto dolce Emiliana gli prese una mano e la portò alle labbra deponendovi un dolce ma sensuale bacio. Il contatto dei seni tesi, la carezza del pube sul suo corpo vinsero le ultime resistenze di Herio. La sua mano prese a carezzarle il corpo assaporandone la saldezza e saggiandone la palese disponibilità.
–Prendimi signore. . .te ne prego-mormorò Emiliana quando la mano di lui indugiò fra le sue gambe. Le loro labbra si incontrarono ed un primo bacio più di ogni parola mostrò inequivocabilmente il reciproco desiderio. Le mani di Herio scivolarono verso i glutei di lei cercando di fare aderire il più possibile i loro corpi.
–Non posso più aspettare padrone-mormorò lei mentre guidava Herio dentro di sé.
Herio entrò dolcemente in lei e fu poi travolto dalla smania di prenderla. Penetrò la sua verginità e dopo pochi istanti raggiunsero entrambi un piacere sicuramente troppo a lungo rinviato.
Ovviamente Herio rinunciò al suo viaggio non riuscendo a staccarsi da Emiliana quanto lui ansiosa di scoprire tutti i segreti del proprio corpo e di quello di lui. Emiliana nonostante la palese inesperienza iniziale seppe, con la stessa franchezza con cui si concedeva, pretendere quanto il suo giovane corpo sembrava richiederle. Quando entrambi furono infine stremati ed appagati fu lei che chiarì per entrambi le future regole dei loro rapporti.
-Potrai avermi come e quando vorrai. Ma questo non dovrà cambiare i nostri rapporti. Anch’io, voglio conservare la mia libertà di rimanere con te solo e fino a quando vorrò. Non ci saranno impegni o peggio ancora promesse. Solo così potrò essere ancora tua!
Herio fu lieto di questa precisazione consapevole che quanto fra loro era accaduto, almeno da parte sua, era dovuto ad un desiderio puramente fisico. Era certo che al di là di questo non avrebbe voluto implicazioni su di un piano sentimentale che avrebbe sicuramente posto entrambi in imbarazzo e che lui francamente non sentiva di desiderare.
L’accordo tacitamente raggiunto non implicava, e del resto sarebbe stato impossibile attuarlo nel loro ristretto mondo, che il loro legame dovesse essere nascosto e fu chiaro a tutti che se Emiliana non si poneva in stato di supina sudditanza verso il suo padrone, ciò non implicava per lei un ruolo di padrona di casa od un mutamento di status. Il fatto che Metello e Placidio avessero già previsto quanto ora si era concretizzato, rese più facile a tutti accettare le nuove regole ed abitudini che lentamente mutarono il funzionamento di quel microcosmo che era la casa di Herio.
Negli anni che seguirono Herio prese a viaggiare in lungo ed in largo nel Sannio e nei paesi italici seguendo, come egli stesso scherzando diceva, le orme di suo padre. Ovunque viaggiasse affrontava con altri “cospiratori” i problemi comuni connessi alla soggezione a Roma. Si dibatteva delle incerte e capricciose regole che presiedevano alle richieste di contingenti militari, delle forti spese connesse all’allestimento, a carico degli italici, di tali truppe, delle continue spoliazioni di terreni da parte dei cittadini romani, della sempre crescente invadenza romana nelle attività commerciali, del discriminante operare della giustizia. I soldati che tornavano dalle campagne lamentavano che il soldo che percepivano era inferiore a quello dei romani ed anche di taluni italici e che lo stesso avveniva quando si doveva spartire il bottino o le prede di guerra. Gli abitanti dei diversi villaggi lamentavano che, sicuramente in base ad un preordinato disegno delle autorità romane, molti dei loro giovani se non interi gruppi familiari si vedevano costretti per lavorare a lasciare le loro famiglie per una volontaria migrazione e che le autorità romane ne approfittavano per fare giungere persone di diversa etnia così da indebolire la coscienza civica e nazionale ed eliminare eventuali sentimenti latenti anti romani. Si prendeva atto che con i nuovi arrivi l’uso della lingua osca si andava sempre più perdendo e soprattutto le città caudine lamentavano una pesante romanizzazione.
Ma se questi erano i problemi si cercava anche di dare agli stessi una risposta che fosse la più possibile unitaria. Si mettevano in atto strategie comuni che potessero fare intendere a Roma che i popoli soggetti si andavano riconoscendo, al di là dei loro atavici particolarismi, in una nuova entità più difficilmente comprimibile.
Tra i “cospiratori” andavano emergendo Mutilo e l’indiscusso portavoce dei Marsi, Quinto Poppedio Silone. Se Mutilo vedeva ancora come prioritaria via di uscita una rivolta armata, Quinto Poppedio Silone, al contrario, si batteva per ottenere per gli italici una pari dignità di trattamento ed un riconoscimento di quei diritti ancora riservati ai soli cittadini romani. Pur nella diversa impostazione del comune problema entrambi avevano ben presente, e sempre in maniera più evidente, che, quale sarebbe stata la via che un domani sarebbe stata prescelta, obiettivi ed azioni sarebbero dovute, comunque, essere comuni.
Herio, dal canto suo, aveva assunto a pieno titolo quel ruolo di corriere che già era stato di suo padre ed in tale veste viaggiava di continuo lungo la penisola contribuendo a cementare ed amalgamare le diverse popolazioni in nome di questo nuovo spirito di appartenenza alla nascente nazione italica che si andava delineando come l’unica alternativa all’egemone posizione romana.
I suoi viaggi, motivati da ragioni di lavoro, lo portarono spesso anche a Roma quale attento osservatore e referente di quanto vi succedesse e pensando allo scenario delle guerre che i romani sempre più spesso andavano combattendo fuori della penisola ed anche in terre oltremare si ritrovò a condividere le posizioni, a suo avviso più realistiche, di Quinto Poppedio Silone. Le pretese di sottrarsi alla tutela di Roma di Giugurta re di Numidia, le mire dei Cimbri e dei Teutoni sulle terre più a sud dei loro stanziamenti rendevano palese che nella penisola i precedenti particolarismi etnico- politico costituivano un motivo di debolezza tanto per i romani quanto per gli italici in genere. Combattere i romani ormai non sarebbe più significato, come era stato per i suoi avi, combattere per una affermazione nella sola penisola, ma sostituire al crescente potere politico e militare espresso dai soli cittadini romani quello espresso da tutte le componenti etnico-politiche della penisola che Roma aveva aggregate con la forza e spesso con l’arroganza di un vincitore. Il riconoscimento della cittadinanza agli italicied una politica di apertura agli stessi avrebbe infatti con il tempo portato ad un amalgama tra i vari popoli della penisola e ad un progressivo superamento di vecchie rivalità e di quei particolarismi dei quali ognuno era ancora geloso custode e tanto più lo era in quanto li vedeva minacciati e negati da un potente vicino.
Quando per portare avanti vittoriosamente la guerra in Numidia, Mario arruolò esclusivamente volontari molti fra i sanniti e gli italici si arruolarono non in virtù di un dovere, come sempre era stato, ma per uscire da una condizione di miseria e per poter sperare in quelle future assegnazioni di terra che il loro comandante avrebbe richiesto per i propri soldati. Per molti giovani fu semplicemente un’opportunità di grandi avventure ed una possibilità di proiettarsi in un nuovo mondo in rapido allargamento dei propri confini.
Herio ed i suoi compagni d’avventura in un certo senso favorirono l’arruolamento della loro gente variamente ritenendo che questo potesse essere un modo per indurre il Senato ed il popolo di Roma a rivedere la propria posizione in materia di cittadinanza o che comunque costituisse, se si fosse arrivati ad una guerra italica, una preziosa esperienza militare fatta con un famoso comandante. Lo stesso avvenne anche quando Cimbri e Teutoni dopo aver inflitte alcune sconfitte ai romani sembrarono rappresentare una effettiva minaccia.
I “cospiratori” arrivarono a chiedersi se non fosse il caso che essi stessi prendessero parte a quelle campagne per quegli stessi motivi che avevano ritenuto validi per la loro gente ma dovettero forzatamente decidere di non potersi arruolare perché se i vuoti tra i loro sostenitori potevano ragionevolmente colmarsi sarebbe stato ben difficile colmare i quadri della struttura organizzativa.
Herio continuò quindi quella vita girovaga che gli permetteva di assolvere ai suoi incarichi e che si rivelava a lui congeniale visto che si era sempre sentito estraneo ad ogni ambiente ristretto ed a stabili relazioni sentimentali.
Il rapporto, scevro di implicazioni, con Emiliana costituiva, in questa vita che si era creato, un punto fermo ma assolutamente non limitativo della sua libertà.
Non era facile, come lo era stato nei primi anni della sua grande avventura iniziata dopo la rivolta di Fregelle, continuare a mantenere acceso nella gente un atteggiamento se non ostile almeno critico nei confronti di Roma e della sua cieca politica e sempre più spesso Herio si interrogava se il loro cospirare si andasse sempre più riducendo ad uno sterile gioco di intellettuali mentre le masse andavano rassegnandosi ad una situazione di fatto che, sia pur limitativa della libertà delle genti italiche, sembrava assicurare nell’intera penisola una relativa pace. Ai più le diatribe interne di Roma apparivano lontane ed ininfluenti salvo estemporanei malumori quando più palesi si manifestavano le angherie nei confronti degli italici. Ma a tutto, passati i primi malumori, ci si rassegnava mentre l’espansione romana verso le colonie sembrava aprire a tutti, anche se su piani diversi, una più ampia visione del mondo e nuove e maggiori opportunità.
L’ascesa di Mario–peraltro significativa per il fatto che fosse un uomo nuovo in quanto proveniente da una famiglia cui in tempi recenti era stata riconosciuta la cittadinanza romana- ai più fiduciosi sembrava preludere a nuove e probabili concessioni a favore delle popolazioni italiche.
Per quanto riguardava il suo piccolo mondo Herio aveva temuto che l’improvvisa morte di Metello avrebbe limitata la sua libertà di movimenti ma, su suggerimento di Emiliana, rimpiazzò il fidato amministratore con Placidio che, aiutato dalla sorella, seppe non far rimpiangere lo scomparso Metello.
Emiliana, pur rimanendo immutato il loro rapporto, sembrava con gli anni disponibile a farsi indietro nella convinzione che Herio potesse ormai desiderare di avere una compagna del suo rango per assicurarsi una discendenza. Ma Herio ripeteva spesso, quando Emiliana affrontava questo discorso, di avere ancora tempo per decidersi a mettere al mondo dei figli.
Quando al panico per i successi dei Teutoni si aggiunse anche una rivolta degli schiavi in Sicilia, Quinto Poppedio Silone, che continuava a tessere a Roma la sue trame per il riconoscimento della cittadinanza romana agli italici, al comando di un forte contingente di Marsi affiancò i romani contro i Cimbri ed i Teutoni.
Sempre più convinto della sua idea che solo una rivolta armata potesse dare una risposta alle istanze degli italici, Mutilo ebbe parole di fuoco verso Quinto Poppedio Silone.
-Porti la miglior parte dei nostri giovani a morire per le guerre e la gloria di Roma. Ti sei lasciato plagiare! Sottrai uomini e mezzi alla nostra causa. Hai rinnegato con questa decisione il lavoro che faticosamente abbiamo fatto per anni!
–Non rimproverarmi Mutilo– aveva ribattuto Silone- Non è certo la prima volta e spero non sia l’ultima che le nostre idee divergono. La mia scelta è stata consapevolmente presa per mettere alla prova le reali intenzioni di Roma nei nostri confronti. La nostra partecipazione questa volta non potrà essere disconosciuta perché è qualcosa di più del solito fornire truppe. Se questa nostra massiccia adesione non dovesse costituire, come spero, un sostanziale cambiamento della politica nei nostri confronti allora avrai avuto ragione tu. Ma devo essere sicuro, costi quello che costi, che per anni non ho vissuto nella speranza di un sogno irrealizzabile.
–Ci siamo dunque ridotti a questo– aveva incalzato Mutilo- a sperare di comprarci con i nostri morti ed il nostro sangue la benevolenza di Roma?
-No amico-aveva interrompendolo replicato Quinto Poppedio Silone- Io non imploro la benevolenza di Roma né la compro. Per me, dopo tanto parlare, è il momento di fare una verifica e se tu non te la senti di porti a capo dei tuoi sanniti per combattere al fianco di Roma io so di poterlo fare con i miei Marsi. E gli dei non vogliano che debba riconoscere il mio errore! Hai comunque ragione, faccio la mia scelta di campo, ma la faccio convinto di operare nel comune interesse. Io solo, se ho visto male, sbaglierò. Non ti ho chiesto di prendere parte a questa avventura come non l’ho chiesto ad Erio Asinio, a Publio Presenteio ed a Caio Pontidio. Sono infatti convinto che Marrucini, Peligni e Picentini non siano pronti a questo passo come per altro verso non lo sono neanche Frentani, Vestini, Apuli e così via.
La discussione iniziata con toni violenti ritornò ben presto alla normalità perché in cuor suo Mutilo doveva ammettere che il tentativo di Quinto Poppedio Silone aveva una buona dose di ragionevolezza. Comunque entrambi sapevano che si stava, forse per l’ultima volta, spendendo l’unica carta che potesse evitare agli italici di prendere le armi per dare inizio ad una rivolta che sicuramente avrebbe portato ad uno spargimento di sangue ed a nuovi sconvolgimenti nell’assetto della penisola.
Herio, testimone silenzioso dello scontro verbale tra i due amici, fu lieto che nonostante tutto si fosse raggiunto un accordo, per quanto interlocutorio, e condividendo le motivazioni di Silone sperò che la scelta fatta desse buoni risultati. Dopo che ad Aurasio (La battaglia di Arausio fu combattuta il 6 ottobre 105 a.C. nell’odierna città francese di Orange, in Provenza, fra le legioni di Roma e le tribù nomadi di alcuni popoli germanici, Cimbrie Teutoni, i più numerosi, accompagnati dagli Ambronie Tigurini.) le truppe romane erano state sanguinosamente sconfitte con perdite dei romani e dei loro alleati stimate in ottantamila uomini, gli stessi tre amici si incontrarono nuovamente. L’incontro era stato sollecitato da Silone che, ancora in via di guarigione per le ferite riportate in combattimento, aveva ritenuta opportuna una riunione plenaria dei rappresentanti dei popoli italici. L’incontro aveva richiesto da parte di Herio un lungo lavoro preparatorio e la non facile scelta, tra le montagne del Sannio, di un posto dove i cospiratori potessero riunirsi senza dare nell’occhio. Alla fine si era convenuto che proprio casa sua fosse il luogo migliore anche perché Herio disponeva all’occorrenza di sufficienti forze, costituite da uomini fidati, che potevano controllare agevolmente il territorio circostante.
Il Quinto Poppedio Silone che si presentò alla riunione sembrò a tutti irriconoscibile. Il suo viso oltre alla stanchezza rivelava la cocente delusione delle sue speranze e le parole che rivolse ai convenuti dovettero costargli non poca fatica.
-Amici, come voi tutti sapete ho coinvolto la mia gente in un tentativo di guadagnare con il nostro sangue l’apprezzamento di Roma e di ottenere, conseguentemente, quei riconoscimenti che noi tutti da tempo ci auspichiamo. Non ho voluto coinvolgere altri ed ora ne sono lieto perché oggi dovrei sentirmi in colpa verso la vostra gente così come mi sento nei confronti della mia. Aurasio è costata la vita a seimila dei miei migliori soldati, ma non è solo questo che mi angustia. Il fatto che mi addolora e fa sanguinare il mio cuore è che ad Aurasio è crollato il mio sogno che tutti conoscete. Ho visto gli ufficiali romani utilizzare i miei soldati come carne da macello come se la loro vita non valesse quella dei cittadini romani eppure la mia legione marsicana era la più disciplinata e la meglio addestrata. Ci hanno schierati all’estremità orientale del fronte senza protezione della cavalleria, vicino a noi e nella medesima situazione anche i reparti sanniti e poco più oltre una legione comandata da Marco Livio Druso, un romano. Io stesso sono stato ferito e come me quel Druso e se siamo scampati al massacro che i nostri nemici hanno fatto dei feriti è stato perché eravamo coperti tanto di cadaveri dei nostri compagni quanto del loro come del nostro sangue. Propri a quel romano, Livio Druso devo la mia vita perché nonostante le sue pur gravi ferite mi ha soccorso. Ho dovuto constatare che il Senato di Roma ha preso atto della pesante sconfitta subita senza avere una benché minima parola per i seimila legionari ed i duemila servi marsicani caduti in battaglia, ho dovuto arrendermi all’evidenza che i nostri caduti sono morti invano perché a Roma nessuno è pronto ora, e non lo sarà domani, ad accogliere nessuna delle nostre richieste. Ad Aurasio con i miei uomini sono morte le mie speranze di una soluzione pacifica dei nostri problemi.Come se non bastasse, ho visto gli esattori di Roma piombare come avvoltoi sulle proprietà dei soldati caduti e sui beni di chi contraendo pesanti debiti mi aveva aiutato nell’impresa di mettere in campo un così considerevole numero di armati. Aurasio è la data di spartiacque tra le mie idee di un tempo e quelle che Mutilo ha sempre sostenute. Oggi io ammetto che Mutilo ha ragione e che la sola via che ci resta per riprenderci il nostro onore sia il ricorso alle armi. D’ora in poi anche io guarderò alla guerra ed Herio vi metterà a parte di alcune decisioni che io e Mutilo abbiamo preso e che oggi sottoponiamo alla vostra approvazione. Nel generale silenzio che seguì le accorate parole di Quinto Poppedio Silone, Herio prese la parola.
-Amici gli obiettivi che ci siamo dati sono ora essenzialmente pratici e puntano nella sola direzione di prepararci alla guerra.Il nostro impegno prioritario è quello di armarci e di preparare nel massimo segreto le nostre truppe. Per armarci senza destare l’attenzione di Roma ci dovremo rivolgere ai fabbri della Gallia in quanto raramente utilizzati dai romani. Dobbiamo ovunque sulle nostre terre cercare posti sicuri dove nascondere le armi man mano che ci verranno consegnate. Dobbiamo organizzare il trasporto, quanto più possibile via mare, delle armi ed il loro successivo smistamento. Come è evidente tutto questo comporterà un notevole impegno finanziario e credo che ognuno dei popoli oggi qui rappresentati dovrà affrontare pesanti sacrifici. Voglio sottolineare una cosa che Quinto Poppedio ha omesso di dire. Ai nostri caduti ad Aurasio, dopo la battaglia, le armi, che loro stessi avevano con sacrificio della loro gente pagato, sono state raccolte dai romani ed inviate nei loro depositi come se anch’esse appartenessero loro come la vita dei soldati caduti.Occorre inoltre cominciare a preparare scorte di ogni genere per una guerra che potrebbe rivelarsi tanto lunga quanto sanguinosa. Come vedete oggi forse per la prima volta siamo riuniti per affrontare problemi concreti e per contarci in vista di una ben precisa azione. Ognuno di voi potrà esprimere le personali opinioni e quelle degli uomini che lo hanno delegato. Da domani chi sarà con noi dovrà concretamente impegnarsi nel comune obiettivo della rivolta armata contro Roma e dovrà essere ben conscio dei rischi che affronterà personalmente e che farà ricadere sul proprio popolo.
Le parole di Herio furono seguite da un innaturale silenzio poi ad uno ad uno i vari rappresentanti presero la parola per impegnare i rispettivi popoli alla preparazione della guerra e conseguentemente alla guerra stessa. Nessuno si tirò indietro e quindi si cominciarono a delineare i primi piani attuativi di quanto era stato deliberato. Mutilo lasciò che fosse Herio a garantire l’adesione del popolo sannita quasi non volesse, prendendo la parola, affermare che la via da tempo da lui indicata aveva finito di prevalere come l’unica possibile. Furono fissate orientative date di futuri incontri e furono affidati a ciascuno ben precisi ruoli e, per espresso volere di Quinto Poppedio Silone, fu deciso che il tutto sarebbe stato coordinato da Papio Mutilo. Ad Herio fu affidato il delicato compito di prendere i contatti con i fabbricanti di armi della Gallia e di organizzare la rete di trasporto e di distribuzione delle armi.
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Editing: Enzo C. Delli Quadri
Copyright: Altosannio Magazine
[1] (Nota di Enzo C. Delli Quadri) Quando molti anni orsono, Paride Bonavolta, mise mano a questo lavoro fu a lungo combattuto tra l’idea di “scrivere di storia” e quella di “romanzare la storia” per renderla più avvincente se vissuta da personaggi con la stessa interagenti. Scelse la seconda, anche perché, di storicamente definito, nonostante l’opera del canadese E.T. Salmon professore emerito alla Mc. Master University in Canada e di altri studiosi, c’è poco e quel poco rifà alla storia scritta dai romani, cioè dai vincitori. Cosicché, i Sanniti, dai loro scritti, non hanno ottenuto quella visibilità e giustizia che forse avrebbero meritato.
Attraverso la vita di 7 personaggi immaginari (Papio, Tauro, Mamerco, Brutolo, Murcus, Gavio, Herio), la storia dei Sanniti di Paride Bonavolta si dipana dal 354 a.C.(data del primo trattato dei sanniti con Roma)al 70 d.C. (morte dell’ultimo dei sette personaggi, quasi 20 anni dopo la Guerra Sociale). Ma, attraverso i ricordi del primo personaggio, Tauro, la storia riprende anche avvenimenti iniziati nel 440 a.C.
I sette personaggidella stessa famiglia, nell’arco di questo periodo, vivranno gli avvenimenti storici che contrapposero romani e sanniti nel contesto più generale degli avvenimenti della penisola italica interagendo quindi con personaggi famosiquali il re epirota Alessandro il Molosso, Pirro, Annibale ed infine Spartaco.