2. Marzio Stazio ovvero Gavio Papio Mutilo (il giovane)

Tratto da Viteliù-Il Nome della Libertà di Nicola Mastronardi [*] con editing e breve nota introduttiva di Enzo C. Delli Quadri e Musica di Tchaikovsky – Symphony n.6 “Pathétique”

Così doveva essere Marzio Stazio, all'epoca dei fatti narrati da Viteliù.
Così doveva essere Marzio Stazio, all’epoca dei fatti narrati da Viteliù.

La Guerra Italica, combattuta da SannitiMarsi, Peligni, Marrucini, Vestini, Piceni  contro Roma dal 91 all’88 a. C. per l’ottenimento della cittadinanza romana, è oramai finita da 16 anni. Siamo nel 72 a. C.

I Romani non hanno vinto militarmente, ma hanno solo saputo difendersi. Gli Italici, invece, hanno ottenuto la cittadinanza romana.

Questo non ha frenato l’odio di generali romani nei confronti dei Sanniti. È il dittatore romano Lucio Cornelio Silla che, tornato dall’Oriente, non accettando l’immissione degli Italici nel mondo romano quali “Cives Optimo Iure”, marcia su Roma e tenta di sterminare la “Touto” [1] dei Sanniti Pentri.

Più in particolare, Lucio Cornelio Silla ha in odio Gavio Papio Mutilo, Meddis [2] supremo dei Sanniti Pentri, l’Embratur dei Vitelios, in altre parole comandante in capo dell’Esercito Italico che aveva condotto la Guerra Italica.

Lucio Cornelio Silla riesce a catturare Gavio Papio Mutilo, da tempo cieco, nel 79 a. C., 9 anni dopo la fine della Guerra Italica. Non lo fa uccidere perché vuole che Papio assista, in stato di umiliazione, alle conquiste di Roma e alla correlativa distruzione del popolo sannita. Silla è convinto di avrelo domato e distrutto moralmente.

Ma Gavio Papio Mutilo resiste alle umiliazioni, assiste al disfacimento fisico di Silla che muore nel 79 a. C. e, proprio nel 72 a. C., decide di fuggire da Roma per tornare nella sua terra sannita. Prima, però, deve “recuperare un ragazzo”……….

Nicola Mastronardi, nel suo meraviglioso romanzo storico, Viteliù – Il nome della Libertà, così racconta il momento in cui Gavio Papio Mutilo “recupera il ragazzo

 Nocola mastronardi Viteliù

Da Viteliù – Il nome della Libertà

Fu, come sempre, lo schiavo Elvio ad affacciare dalla fine- strella i suoi occhi azzurri. Stavolta aprì con fretta strana. Appena dentro, Marzio lo abbracciò come non aveva mai fatto.

“Padroncino” balbettò il vecchio “abbiamo una visita. Una… una persona per te”.

“E chi è? Un amico? Chi può essere a quest’ora?”

“Una persona anziana, un vecchio. Vieni, è con i tuoi. Sei atteso, vieni, nella stanza da cena. È qui da stamattina. Per gli dèi… povero Marzio”.

L’ultima parte della frase venne sussurrata appena.

“Hai detto che è un vecchio? Cosa farfugli, Elvio? Cosa può riservarmi ancora questa giornata memorabile? Sai che ho cavalcato Arco? Una esperienza indimenticabile. Poi ti racconto tutto…”

Lo abbracciò ancora, facendo insieme a lui un girotondo poco prima dell’ingresso della stanza dei pasti serali. Aveva ancora il sorriso sulle labbra quando entrò preceduto dal ser-vo. Suo padre e sua madre erano sdraiati ognuno sul proprio triclinio. Su uno sgabello davanti a un tavolo basso sedeva uno strano vecchio vestito con una veste dalla foggia antica e dai bordi ornati di rosso, segno di indubbia autorità di chi la indossava. Fu questa persona ad alzarsi per prima, non appena il giovane mise piede nella stanza. Annusò l’aria come per co- gliere un nuovo odore e i suoi occhi spenti sembrarono scruta- re il giovane volgendosi verso la sua direzione.

“Salute a voi, padre e madre” disse Marzio avvicinando- si a baciare Livia, sorpreso non poco dall’ombra sul viso di quest’ultima. La donna lo abbracciò e non riuscì a trattenere lo scoppio del pianto.

“Madre! Tu piangi, che succede? Cosa ti prende?”
“Nulla, Marzio, siediti e ascolta”.
Era stato Lucio Stazio a prendere la parola sollevandosi a

sedere sul triclinio.
“Devo presentarti una persona” disse ancora, invitando il

giovane a guardare l’inconsueto ospite che si era munito del bastone dalla testa di toro. In piedi, l’aspetto solenne, sembra- va attendere qualcosa. Lucio continuò.

“Oggi abbiamo saputo cose che non sapevamo… Storie vecchie di anni che credevamo sepolte dal tempo. Da prima che tu nascessi…”

Una pausa.
“Questo anziano è...”, esitò. “È tuo nonno!”
Marzio sgranò gli occhi. Poi guardò sua madre, che ebbe un nuovo singulto di pianto, fissò appena il vecchio, infine si ri- volse ancora al padre.

Nonno? Ma i miei nonni sono morti prima che io nascessi. Che storia è questa, tata! Madre mia perché piangi tanto. Volete spiegarmi?”

Lucio Caro prese a parlare con maggiore decisione.

“I nostri genitori, è vero, sono morti prima che tu nascessi. Il tuo vero nonno è lui. Vedi, noi…” ancora una pausa come per cercare le parole giuste. “Lo so che è incredibile e che sarà doloroso per te. Ma, non possiamo non dirtelo. Devi essere forte, Marzio. Noi… noi ti abbiamo preso con noi che eri piccolissimo. Siamo stati tuo padre e tua madre fino ad oggi, ma non siamo noi i tuoi genitori”.

Livia ebbe un violento singulto soffocato dalle sue stesse mani.

“Padre, ma quali parole odo? Sono forse impazzito? O no, forse sogno. Elvio dammi uno schiaffo! Io sogno, sto sognando non è vero? Cosa succede in questa casa, chi è questo vecchio? Che storia è questa? Il tono della voce si era alterato.

“Vieni qui, Marzio, siediti vicino a me” disse Livia facendosi forza e asciugandosi il volto con un piccolo telo, “vieni, bam- bino mio, ti racconteremo tutto. Devi essere forte. Sei un uomo ormai. Non avrei mai creduto di dover affrontare questo mo- mento. Speravo sempre, pregando gli dèi, di evitarlo. Eppure è arrivato, e ora non si può più evitare. In cuor mio l’ho temuto tutta la vita”.

“Di quale momento parli, madre… dimmi che non ho udito le parole pronunciate da tata. Io sono tuo figlio, vero?” Le ac- carezzava le braccia nervosamente.

“Sì, ma…” Livia non poté continuare.

“Tu sei figlio di Gavio Numerio Mutilo”, prese a dire l’anziano cieco facendo udire per la prima volta la sua voce, “soldato della touto[3] dei Pentri; sei anche nipote del comandante supremo dei Vitelios nella guerra contro Roma, Gaavis Paapiís Mutíl[4], che hai davanti a te in questo momento. Gavio Papio Mutilo è anche il tuo vero nome. O meglio, lo sarebbe stato se Roma non avesse invaso e oltraggiato la terra che ti ha visto nascere”.

“La terra…? Tu devi essere pazzo, vecchio. La mia terra è questa e la mia patria è Roma. Io sono romano, non è vero madre? Romano…” ma nello stesso momento in cui Marzio pro- nunciava queste frasi, il dubbio s’insinuò per la prima volta, come un verme repellente, nella sua testa. Osservò la cupez- za di Livia e la severità del volto di quello che aveva sempre considerato suo padre. In quel momento intuì l’inizio di un incubo.

“Dite qualcosa, per gli dèi! Cosa sta succedendo?” Aveva gridato.

Si accasciò sulle gambe di Livia che gli fu addosso per riem- pirlo di carezze e lacrime.

Fu ancora il vecchio a prendere la parola.

Da sette anni io vivo a Roma. Fu qui che Silla volle farmi portare dopo la cattura per costringermi a vivere nella città che più odiavo e che avrei voluto annientare insieme a tutti i suoi abitanti. Cieco e deriso come un mendicante, ho dovuto sopportare i fasti delle glorie romane e assaporare, fino all’annientamento del mio orgoglio, le celebrazioni delle stragi subite dal mio popolo. Assistere, negli anni, all’oblio della memoria della sua esistenza, come se la grande nazione dei Safinos non fosse mai esistita. E i luoghi più sacri violati, distrutti, scomparsi. Gli uomini, le donne, trucidati, il mio popolo… Silla… quante volte avrei voluto ucciderlo con la mia spada. Alla fine della sua vita l’hanno fatto le mie parole”.

Una lunga pausa in cui nel silenzio della stanza si udirono solo i singhiozzi trattenuti di Livia.

“Una cosa Silla non comprendeva: avevo sopportato tutto senza batter ciglio e senza apparente sofferenza. Non ho mai reagito a tanta crudeltà e alle umiliazioni. Lui stesso e le persone che aveva intorno non si spiegavano tanta calma apparente. C’era una ragione che mi dava la forza e per la quale sono potuto sopravvivere a tutto. Quella ragione sei tu”.

Marzio aveva ascoltato con il viso nascosto nel grembo della donna che ancora sentiva sua madre. Alzò la testa, ma lo stordimento gli impedì in quel momento di proferire alcun suono. Riuscì solo a rivolgere a Lucio Stazio uno sguardo pieno di interrogativi. Il vecchio si era seduto sullo sgabello.

Fu Lucio Stazio a riempire con la sua voce quel nuovo silenzio.

“Ti chiederai come e quando ti abbiamo conosciuto” disse, “come sei arrivato da noi. Ebbene, è il momento che tu lo sappia”.

Guardò il suo schiavo fermo sulla soglia della porta. “Elvio parla tu. Racconta al ragazzo la notte del suo arrivo, te ne prego”.

“Accadde di notte”. Il servo entrò nella stanza, la voce esi- tante e gli occhi azzurri che tornavano indietro nel tempo a cercare i ricordi. “Era d’estate, l’aria era tiepida. Una dolce notte, dice sempre tua madre. La notte in cui tu… sei arriva- to. Lucio Caro, tuo padre, si era coricato tardi, perché con due amici si era trattenuto a parlare degli ultimi fatti di guerra. Era il tempo delle incursioni di Silla nel Sannio, esattamente alcuni mesi dopo la presa di Bovaianom, il terzo anno della guerra degli Italici contro Roma. L’anno seicentosessantaquattro[5] dalla fondazione… Come dimenticarlo? Avevamo tutti appena preso sonno, quando fummo svegliati da un rumore di zoccoli sul selciato. Al trotto lento, poi al passo. E più nulla. Udii il fiato grosso e gli sbuffi del cavallo evidentemente fermo proprio da- vanti all’ingresso di casa nostra. Istintivamente cercai il lume. Poi ci ripensai. In quegli attimi interminabili di silenzio che seguirono mi avvicinai all’armadio delle armi, presi un pugnale e un gladio. Trattenni il fiato e restai in silenzio, quindi uscii dalla camera da letto e mi diressi verso l’atrio tentando di non far rumore. Il cavallo era ancora fuori del cancello di casa. Si sentiva il suo respiro affannato. Pensai anche di svegliare gli altri servi e Lucio Stazio, ma non ebbi il tempo di fare nulla. Il rumore degli zoccoli riprese d’improvviso. Si allontanava al galoppo. Chi era, cosa era stato? Avevano lasciato un messaggio oppure avevano appiccato il fuoco alla casa? Con il cuore in tumulto attraversai di corsa l’atrio. Aprii il pesante portone di legno, poi il cancello di ferro, mentre tuo padre… cioè Lucio, anch’egli destato dal rumore degli zoccoli, era uscito dalla sua stanza. Mi raggiunse, mentre il galoppo si dirigeva verso la porta meridionale della città. Il mio padrone uscì trafelato per strada e inciampò in un fagotto. Ci furono due rumori contemporanei: un tonfo sordo lontano, sul selciato, e un pianto improvviso, proprio sotto i nostri piedi. ‘Un bambino, è un bambino!’ dissi indicando il mucchio di stracci rotolato per strada. Eri tu. Piangevi con quanto fiato avevi in corpo. Già allora mi accorsi di quanto la dea natura fosse stata generosa con te. Quanta forza in quegli strilli!”

Il servo fece una pausa. Per un breve istante guardò Marzio attendendosi una reazione. Il ragazzo era come pietrificato, lo sguardo perso innanzi a sé a cercare le immagini che il raccon- to andava formando nella sua mente.

“Sì, eri tu. Un piccolo fagotto urlante a terra. Lucio Stazio pensò poco a te. Fece appena in tempo a rendersi conto in cosa fosse inciampato, per limitarsi a dire: ‘Prendilo! Fallo tacere’, rivolto a me. Poi corse come un forsennato nella direzione in cui il cavallo si era allontanato. Aveva intuito che il misterioso cavaliere era stato disarcionato. Era così. Il soldato era riverso a terra, del sangue usciva dall’orecchio destro. Lucio Stazio disse, per anni, di averlo trovato morto. Invece quell’uomo, lacero e sporco coperto da una armatura di bronzo dalle fibule d’oro, aveva fatto in tempo a parlargli. A dirgli qualcosa che lo aveva sconvolto. Tuo… padre, avrebbe voluto soccorrerlo, ma non potè. Rumori di cavalli in arrivo lo indussero a rientrare immediatamente a casa. Mi spinse dentro e chiuse cancello e porta cercando di non far rumore. Non so come, io ero riuscito a calmare il tuo pianto. Lucio Stazio ti prese in braccio, scoprì il tuo volto e alla luce della luna ti osservò con una intensità che non avevo mai visto nei suoi occhi. Fu in quel momento che gli mostrai ciò che avevo trovato avvolto nei tuoi panni. Due grandi penne che lui riconobbe essere di aquila, di quelle che decoravano gli elmi dei capi sanniti e una moneta della Lega Italica con inciso un nome in lingua osca. Gaavis Paapiís Mutíl, Embratur lesse il mio padrone e ne sembrò sconvolto come se avesse avuto conferma di una terribile verità alla quale non voleva credere. Feci appena in tempo a vedere gli occhi inumidirsi mentre guardava per la prima volta il volto di quel piccolo bimbo dai capelli folti e corvini. I tuoi, Marzio.

Non furono che pochi attimi. Lucio Stazio a gesti mi ordinò di portarti in casa. Lo feci e uscii di nuovo, sempre in silenzio. Fu in quel momento che il frastuono di cavalli e uomini a piedi giunse nella nostra strada: una pattuglia di soldati roma- ni evidentemente all’inseguimento del Sannita. Lo trovarono riverso a terra morto. Udimmo le espressioni di disappunto del capo pattuglia. Lo avevano inseguito e persino ferito, ma avrebbero voluto averlo vivo fra le mani. Il centurione diede ordine di cercare d’intorno tracce, oggetti o un dispaccio; qual- cosa insomma che il Sannita avesse nascosto prima di morire. I soldati perlustrarono la strada passando più volte davanti all’ingresso di casa, ma non trovarono nulla. Noi due trattenemmo il fiato. Se ne andarono portandosi via il cavallo e il corpo del cavaliere. Non avrebbero mai saputo quale era stata la vera missione del Sannita; consegnare te alla famiglia di Lucio Stazio Caro, fino a dare la sua vita per questo.

Intanto tu eri già fra le braccia di quella che da quel momento in poi sarebbe stata tua madre”.

Al termine di quel racconto, Marzio sentì che la sua condizione di adolescente fatta di divertimento e sogni era finita. Era l’ora, terribile, della scoperta di un’incredibile e del tutto inattesa verità.

Rivide in un attimo tutta la sua vita. I suoi ricordi d’infanzia cominciavano con Lucio Stazio e Livia e con la casa di Venafrum dove aveva sempre creduto di essere nato e nella quale ancora tutta la famiglia soggiornava in autunno al momento della raccolta delle olive. Lucio e Livia erano suo padre e sua madre. Nel cuore e nella mente non c’era posto per altri ge- nitori. Non poteva esserci. Ora tutto crollava insieme alle sue certezze. Prese a piangere.

“Madre, dimmi che non è vero, dimmi che è uno scherzo crudele. Basta, vi prego, basta. Non è vero, non è vero!” Era come inebetito, ogni sua volontà annullata da uno shock in- sopportabile. Rituffò il volto nelle vesti di Livia.

Lucio Stazio si allontanò dalla stanza. Vi tornò dopo alcuni istanti recando una cassetta di legno chiusa a chiave. L’aprì. Ne tirò fuori un panno che svolse piano sotto gli occhi di tutti. Apparvero due grandi penne aggrinzite dal tempo e una moneta con una testa di donna da un lato e un toro che abbatteva la lupa dall’altro. In osco si leggeva la cifra di Papio Mutilo imperatore dei Sanniti. Erano gli oggetti descritti da Elvio. I segni dai quali Lucio Stazio aveva capito, quella notte, chi fosse l’infante di sei mesi.

Denario, Zecca al seguito di Papio - 90 a. C. - Testa di Libero e, sul retro, Toro Sannita che abbate la lupa romana copia“Quella fu la notte in cui tu entrasti nella nostra vita” sussurrò l’uomo, “il momento in cui io scelsi di essere tuo padre e Livia divenne la tua unica madre vivente”.

Mostrò da vicino la moneta al ragazzo dal lato in cui era ritratto un toro nell’atto di abbattere una lupa e una breve scritta in lettere osche non comprensibili per Marzio. Il giovane la prese in mano, si asciugò gli occhi e la voltò per osservarne l’altra faccia: una testa di donna coronata d’alloro e un nome inciso, anch’esso in lingua osca.

“Gaaviis Paapiís Mutíl” pronunciò Lucio Stazio in un incerto osco-italico, “lo stesso nome che il soldato pronunciò prima di morire fra le mie braccia. Il nome di tuo nonno. Il… tuo nome, Marzio”.

Non ebbe più dubbi, perse ogni speranza e ogni ritegno. Sbatté la moneta in terra con una rabbia mai provata e fuggì dalla stanza, respingendo chiunque tentasse di fermarlo. L’atrio tremò del suo “No!” urlato verso il cielo di Roma.

Altosannio, il luogo dove si sviluppano le vicende narrate in Viteliù. Aufidenia=Alfedena. Hereclanom=Schiavi d’Abruzzo. Pesco di Guardia=Pescopennataro. Trevento=Trivento. La Pietra che viene avanti=Petravenniende (Pietrabbondante). Sella dei Sacrati=Sella di Capracotta. M.Karakenos=Monte Saraceno. Santuario della Nazione=Teatro Italico di Pietrabbondante. M.Kaprum=Monte Capraro. Ver=Verrino. Città del Toro Sacro=nei pressi di Agnone. Le tre cittadelle=Le Civitelle
Altosannio, il luogo dove si sviluppano le vicende narrate in Viteliù. Aufidenia=Alfedena. Hereclanom=Schiavi d’Abruzzo. Pesco di Guardia=Pescopennataro.
Trevento=Trivento. La Pietra che viene avanti=Petravenniende (Pietrabbondante).
Sella dei Sacrati=Sella di Capracotta. M.Karakenos=Monte Saraceno.
Santuario della Nazione=Teatro Italico di Pietrabbondante. M.Kaprum=Monte Capraro.
Ver=Verrino. Città del Toro Sacro=nei pressi di Agnone. Le tre cittadelle=Le Civitelle

 

 

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[*] Nicola Mastronardi, Molisano di Agnone (IS), direttore della biblioteca storica. Laureato in Scienze politiche è cultore di materie storiche, giornalista pubblicista e, soprattutto, scrittore. Il suo romanzo storico “Viteliú. Il nome della libertà” è, oramai, un evento letterario riconosciuto da tutti.
[1] Il termine osco touto indicava l’organismo composito, ossia l’unità politica corporativa a base territoriale variabile che costituiva lo “Stato” dei Sanniti.
[2] Il Meddis tuticus era il più alto magistrato sannitico. Eletto annualmente, era il capo militare del Touto (lo “Stato” sannita), ne curava l’amministrazione della legge, delle finanze, della religione e presiedeva le assemblee collegiali che aveva il potere di convocare.
[3] Stato Sannita
[4] Gavio Papio Mutilo comandante in capo dell’Esercito Italico che condusse la Guerra Italica.
[5] 88 a. C.

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2 pensieri riguardo “2. Marzio Stazio ovvero Gavio Papio Mutilo (il giovane)

  1. Sono abruzzese – Villetta Barrea -ma vivo a Roma da quando avevo solo tre anni…….ho sempre sentito profondamente l’appartenenza al mio popolo di origine anche se amo molto la città che ha accolto il mio nucleo familiare senza mai farci sentire estranei! La lettura del libro di Mastronardi mi ha trasmesso molte emozioni e mi auguro che presto possa essere fonte di ispirazione per una rappresentazione cinematografica.
    GRAZIE all’autore

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