Racconto di Giuseppe Tiberi [1]
(per capire il significato delle parole colorate, basta cliccarvi sopra)
Una bella mattina di maggio del 1860 i sedici pastori dell’armentario di Rivisondoli, don Mariano Buccio, detto Uocchijenire, si apprestavano a lasciare la locazione del Candelaro per riportare le pecore ai pascoli di montagna. La leggera nebbia che saliva dalle paludi andava lentamente dissolvendosi, mentre splendeva al primo sole la bianca Manfredonia.
Si misero in cammino quattro ore dopo mattutine. Maste Custante, ru massare, si fece tre volte la croce davanti alla sbiadita immagine di San Michele Arcangelo sull’architrave della capanna mentre borbottava scongiuri contro quire che steve sotte Sammecchele. [2]
I cani che andavano di straforo a lappare il latte schiumoso appena munto, stavano ora nelle loro poste, guatando immobili con le recchje appizzate. Come nell’aria risuonarono le alluccareccje de re pecurijere, attaccarono una canizza che cessò soltanto quando il gregge uscì dagli stazzi, riversandosi sul tratturo sterminato.
Nella locazione rimasero i caciari Vasileche e Felecjareije, a lavorare la quajate con le braccia immerse nel siero bollente, e uno dei vuttaracchjie, Cajtane, a caricare sulle giumente le maciuttelle de cace da portare a Foggia.
Apriva la marcia ru massare, con il nodoso hancine sulla spalla e re zemppitte nuove. ‘Nfelzate aie cappeje all’italiana, una lunga penna de hallenacce e al polso una variegata smaniglia di crini di cavallo. In ultimo veniva l’altro vuttaracchjie, Paulone, tirando per la capezza gli asini con i caratelli dell’acqua.
Quell’anno fiumi e torrenti portavano poco e i guadi erano facili e sicuri. La giusta pioggia e ru fahùgne che aveva soffiato gna Ddije cummanne, avevano fatto ‘na bbella maijese. I vasti campi a grano al di là del tratturo, con le alte spighe folte e rigonfie, apparivano pronti per la sarrecchija.
– Maije viste al mondo – diceva Marenare, il più vecchio dei pecorai, sbriciolando alcune spighe appena colte. Mentre masticava i profumati chicchi, ripeté la sua espressione favorita – Maije viste al mondo.
Marenare teneve ‘mbacce a uttant’ijenne e da cinquanta andava a monte e bballe per il tratturo. Da giovane era stato sulle navi, e per questo jiavenne recaccijate Marenare.
Il sole era ormai alto sull’immensa piana riarsa brulicante di grilli. Ambrusine, ru pecurarjelle, andava occhieggiando tra rè chiencune delle macere, alla ricerca di fichi d’India maturi. Avevano fatto ‘mbacce a cinche meije, quando vicino alla masseria Sant’Emidio una fioca campana suonò l’ora sesta [3]
Le pecore avevano da un pò avvertito la vicinanza dell’acqua. Addossate l’una all’altra, zampettavano con lena avendo smesso di brucare. Quando arrivarono ai pozzi le pecore si sparpagliarono intorno all’abbeveratoio, mentre i pastori, dopo essersi bagnati i volti incrostati di sale, riempirono d’acqua i caratelli .
Verso ventunhore [4], il frenetico abbaiare di Tamburine, il cane di cumpà Beneditte fece scoprire un paio di pecore cadute in una buca cieca ricoperta da una cannizzata intrecciata ‘nghe la jerve. Queste trappolerie non mancavano mai, ma intanto quella volta ‘sci a coppele de notte.
Risuonavano ancora i canti delle calandre, quando verso l’Ave Maria, i pecorai e il gregge misero piede nel primo riposo dove c’erano già i caciari e re vuttaracchjie. Avevano ferrato una delle giumente, e nell’aria stagnava il fetore degli zoccoli bruciati.
Qua e là nel cielo pallido andavano raccogliendosi meijuocche [5] di nuvole. – Ciele a toppe de lane, se non chjove huoje, chjove demane – commentò un pecoraro.
Stavano preparando le panecuotte, quando cumenzè a stezzereijè [6]. Dopo una bella scrosciata, la pioggia cessò, ma il cielo rimase minaccioso. Ambrusine, magnenne magnenne, andava esplorando in folto carrubo dietro il pagliaio, che da poco aveva messo qualche fiore.
Erano tutti molto stanchi, e a due ore di notte [7]se jierne a jiacccjà. Dopo la piacevole frescura della sera, ora l’aria era gelata. Faceva freddo anche nella capanna nonostante avessero appecuoije ru pellicce, ma la stanchità era troppa e ru suonne le abbè subito.
Dormivano così profondamente che nessuno sentì ad una certa ora il vecchio Marenare alzarsi, come era sua abitudine, e andare fuori a tentoni strusciando i chijuochje . Ru massare aveva proibito d’appiccià il torciere nella capanna. “Acqua e fuoche nen te’ l’uoche” diceva [8].
Come venne fuori, il vecchio sentì sulla mano il freddo umidore del muso della sua cagna, Zufina. Dopo averla accarezzata, la bestia se ne tornò alla sua posta, mentre una pecora nel mucchio chjagneve ‘nzuonne. Intanto una luna luminosa si faceva strada tra le nuvole, mentre Marenare vurvetteve: – Maije viste al mondo -. Seduto su una varda, prese la corona mettendosi a recitare il rosario, ma dopo due decine cadde addormentato appoggiato al muretto della capanna.
Il giorno dopo grossi ammassi di nuvole nere incombevano sul tratturo per Lucera, ma l’aria era piacevolmente tiepida e si procedeva di bon pede. Ad una certa ora, Ambrusine, andando con la fionda a tirare alle ciaule, si accorse che Liborio, ru pecurare di Barrea, camminava trampe.
– He la sciaijatica, zazè. Me sta a turmentà da ru Cannelare – disse a ru quatrare. Quando lo seppe ru massare, gli disse di farci le prete calle. Verso l’ora nona, risce risce all’incrocio del tratturo con lo stradale che ‘nghijaneve a Lucera, incontrarono due birri che conducevano tra loro un vecchio a piedi nudi e ‘na scazzetta panuonta ‘ncocce legato con i polsini di ferro.
Mentre i cani abbaiavano come scannati contro gli estranei, ru massare diceva : – Superiò, nen te spagnjà [9]– Ma quelli rimasero fermi con i moschetti rivolti in basso, finchè Marenare e Cajtane non riuscirono a metter a luogo i cani. Allora i birri chiesero a Mastre Custanze le carte di passaggio e baccajierne perchè ru pecurarjelle ne era sprovvisto. Ma poi s’abbonarono con mezza miciscia.
Quella sera Liborio, quando andò a coricarsi si portò nu pare de pelljente bijeje calle. Era una serata calma, con una arietta profumata che veniva dal mare. Ru massare e Marenare rimasero fuori a fumare. Il rugginoso zirlire dei grilli copriva ogni altro suono. Soltanto quando improvvisamente zittiva, si sentiva un lontano feroce abbaio.
– Hanna esse le pecure di don Aniceto – disse Marenare
Nen crede, stijene ‘na jurnata annijente – rispose ru massare .
Il vecchio tacque per un po’, poi disse : – Maije viste al mondo.
Poi riempirono le pipette di terracotta, mentre il vecchio attaccava a raccontare ancora una volta della notte in cui passarono il Piano delle Cinquemiglia i soldati di Giacchine[10] in ritirata verso Napoli. Era una notte di maggio nera nera, e re suldjete purtevene le ‘ntorce.
– Teneve allora ‘ mbacce a decijanne e steve ‘ghe le pecure di don Fiore, ru zije di don Anecete. Qualche anne dope me ‘mbarchijette: ce fusse remaste … Basta, a farla breve: per andare a vedere chela jente, calemme per la pietraia de ru vallone de Chiarane a cavajie dell’ hancine, lasciando le pecure ‘mmijene a re lupe [11] . A re pecurijere, don Fiore mettisse la multa: ddu cherline a cocce. A me invece, fece nu bbijeje scherzitte. A Sante Middje mi invitò a magnà, ma non sapevo ru designe sije. Mentre loro magnevene grevvjuole e arruste, a me fece mette ‘nu cuoppe de mmiccule [12] e ‘na fercine con un solo dente –
Marenare teneva tante altre storie da raccontare, ma era ora di andare a dormire.
![Nella fotografia qui sopra, anch'essa coeva con le immagini sin qui presentate, sono evidenti moltissimi degli elementi citati nei capitol iprecedenti, e mirabilmente descritti dall'autore Giuseppe Tiberi: oltre ai personaggi, tutti provvisti di hancine, sono evidenti il gregge rinchiuso nello stazzo itinerante, i cani pastore maremmani-Abruzzesi, le giumente, e sullo sfondo le macere di chiencune. [ immagine dalla rete : http://www.sefiart.com]](https://altosannioblog.files.wordpress.com/2022/01/3de62-rivisondoli_transumanza_sefiart_com_recoded_n-2.jpg?w=651&h=360)
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Fino a Salcito, chi ‘avesse ditte, Liborio, zuppechenne zuppechenne, se fece ru tratture senza nu lemente. Quando qualcuno gli domandava: – Come va – rispondeva: – Eh, rengrazejeme Ddije, cumpà, cchiù mejarelle. Nen crede ca voja esse cchjù nnire della mesanotte –. Diceva che ci trovava un grande giovamento con le pietre che ci metteva quando andava a dormire. Tutta la notte, veramente steve a sudà a fridde, ma la mattina andava a mogne le pecore con tutti gli altri.
Ru juorne appriesse, sul tratturo per Bagnoli, Ambrusine che stava sempre vicino a Liborio, s’addunè che s’ere misse a sparlà.
Camminava gesticolando e diceva: – Alle sandicce ce vò l’aje e la curtesje de pertuhalle – ripetendo in continuazione. Finché non attaccava un’altra zolfa: – Ru faciole c’e geniale alla minestra.
Al primo abbeveratoio, Liborio se jettè ‘ncocce nu pare de cappellate d’acqua, dicendo con soddisfazione: Ah, mo ssci.
Marenare diceva: Mbrejache, nen hè. Javessere fatte ru maluocchije.
Quando, verso ventunhore, passarono vicino alla chiesetta di San Michele, ru massare disse a Liborio:- nen ‘ncarecà, ca Sammecchele la rrazie te fa.
Quella notte la passarono nen ce sia male, nonostante, ogni tanto, Liborio si lamentasse. Ambrusine stette revije e tutte ‘mpavurite andava chiedendosi se c’era pericolo che venisse pure a lui la sciajateche. Pe’ farsi habbà r suonne, e mettisse a passà la revuceca, a mente, alle sue robicce che aveva messo da parte per la mamma nella bangorda: u cuorne chijne d’oje che aveva risparmiato magnenne scunce pè ‘na mesata; nu ruotele de lempescjune; na’ decema de ajenelle; na’ libbre de cace marzitte e na’ cartate di mannule atterète. Poi ci stava la tavoletta che gli aveva fatto nu pecurare di Scanno con inciso a fuoco la scritta: Rivisondoli patria meja. Il giorno dopo sul tratturo per Pietrabbondante furono colti da nu ddiije d’acquazzone che durò nu pare d’ore. Ma non si sperse nemmeno n’agnellitte. Quando prese a rassenerare, uscì un bell’arcobaleno. – Rusce, gialle e verde – disse Marenare – a huanne grascia de vine, uoje e rrane. Maje viste al mondo.
A quattro ore di notte, a ru meje de ru suonne, fuono risvegliati dalle fijerchie di Liborio chjamenne moje e fije. Anche il suo cane si lamentava gne nu crestijane.
I pecorai non sapevano addò mette’ mijene. – Nen ce la facce cchiù – alluccheve Liborio – Quisse nen hè cunte. Tajeteme la cosse. Erano usciti tutti dalla capanna guardandosi tra loro sbigottiti alla luce di una luna giallina. Che vvojia esse – dicevano – chesse nen hè acqua ma delluvjie[13]. Ru massare era rimasto nella capanna stringendo la mano di Liborio che pareva nu fjerre arrevecenite.

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Quire puver’ome, prese a dirgli: – Cumpà, pè ru sante nome de Ddije, vide na poche che ‘ccedente ecche arrete a ru pépérone [14].
Maste Custante dovette, suo malgrado, accendere il torciere e alla sua luce tremolante scoprì ‘na buscica tutta nera abbuttate.
Rimase senza fiato. – Che hè chesse. Che sciajateche nen ze sa. Nen putive parlà prima? Mo che te puteme fà?
– Teneve pavure ca don Mariane me ce cacceve, cumpà – disse Liborio con voce tremante, – Pè l’aneme sante de ru purgatorje, famme la rrazije, purteteme a ru mijedeche. Nen vuoje murì, tienghe mojie e fije.
Intanto erano rientrati gli altri, guardando smarriti quel mostruoso gonfiore. Poi ognuno prese a dare il suo parere.
– Chela hé state ru mucceche de ‘na tarantella.
– Pemmé, so’ re tefijene.
– Pennone, quisse hé nu cjecre che s’accuonde.
Ru massare tajé a curte, portando tutti fuori. – Ecche ce vò ru mjedeche, mo de subbete. Nen puteme aspettà finde a demane.
Paulone ru vuttaracchjie se fece annjente isse pé j’ a chiamà ru mjedeche ad Agnone.
– Dije a don Favorito ca steme con le pecore di don Mariano: hé canusciute – gli raccomandò ru massare – Hadda menì[15] subbete. Quire cristiane hé pjete ljette[16] e nen ze po’ movere cchjù. Dije paccuscì, sci ‘ntese?
– Pescine[17], cumpà, non dubitare – rispose Paulone.
Il massaro lo seguì fino agli stazzi, dove lo inghiottì la notte.
Paulone mettè pede ad Agnone mentre cjente [18] campane suonavano matutine. Per le strade non c’era anima viva. Nei paraggi della chiesa di San Giacomo, ru vuttaracchjie incontrò ‘na vezzoca che l’affrontò: Che cercate bell’ o’. Venite dalla Puja ? Tenisse na ponta de cace ? – So’ menute per il medico, don Favorito – disse Paulone.
– Ah, ru cerusiche – fece la vecchia. – Nen sta ecche. Alla piazza del Tomolo. Ci sta ‘na ruella e ‘na scritta ,se sape legge. Elle tiene case.
Nella rua ci stava un portoncino e sull’archetto di pietra la scritta:
Che val tanto affannarsi gente inquieta
Se angusta fossa alle fatiche è meta. [19]
Paulone dette una rapida strappata al tirante del campanello. Dopo poco si presentò una serva, né giovane né vecchia, con una barbetta caprina.
– Che volete? – Don Favorito. Hé cosa urgente – disse il giovane – sono persona di don Mariano Buccio. Andò tornando subito dopo. Il medico stava in cucina, seduto ad un tavolino, mangiando con gusto pane e olio. A poca distanza da lui, lo guardava un lupo impagliato con i denti digrignati.
Don Favorito, un ometto nghe ru mejicure[20] e la coccia a tatamelone[21] , aveva un vocione di basso profondo.
Dopo che ru vuttaracchjie gli ebbe spiegato tutto, rifiutò i due ducati che gli mandava ru massare, e fece portare una colazioncina anche per lui. – Pane di secine – disse don Favorito – saporito assai. Poi tutto serio aggiunse: – fa fà le loffe, ma le ventosità sò salute, lo diceva anche Ippocrate. – Paulone, sorridendo scioccamente, disse: ‘Ntiempe de carastije, pane de secine.
Come la serva prese la sua bangorda, don Favoritola dette a portare a ru vuttaracchjie, mentre si metteva nel giubbone una pistola alla rivolvè[22]

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Quando ru miediche, con il sigaro tra i denti e le maniche atturzate dopo aver scelto nella bangorda ru ardegne adatto, fece la pontora alla pesteme, si riempì nu cuttrille di marcia. – Bonum et laudabile[23] – bofonchiò.
Liborio incominciò subito a rivederci. Ma teneva tante n’arsura. Dopo aver inghiottito qualche cucchiaiata di Acqua della Regina che gli dette il medico, se calè tutto di un fiato ddu caraffe di siero. – Maje viste al mondo – fece Marenare.
Paulone stava mettendo i finimenti alla jementa bertona per riaccompagnare don Favorito, ma prima ru massare lo fece rifocillare con un rotolo di micischje arruste e ‘na carafa di vino di Canosa.
Liborio si fece tutte nu suonne dall’ora terza fino alla mattina dopo, quando si mise in cammino anche lui con il gregge sul tratturo per Vastogirardi. I suoi compagni non credevano ai loro occhi che si fosse guarute accuscì subete e intanto il suo cane jie zumpetejeve ‘ntorne.

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Il gregge di don Mariano arrivò al riposo della Portella, sul piano delle Cinquemiglia, la mattina che in paese usciva la processione delle Rogazioni. Il primo a vedere le pecore sbucare dalla defenza sul Prato scintillante di rugiada, fu proprio don Mariano che dall’alba le stava aspettando seduto sulla loggetta.
Tutta la gente che era andata dietro alla processione, si recò a Portella, in prima fila i bambini succhiando il nettare dei fiori della padovana[24] con le facce gialle di polline.
Don Mariano non stava in sé per la contentezza per il felice ritorno del suo gregge e andava accarezzando i folti velli di lana maggese. [25]
Il giorno dell’Ascenza, giovedì 17 maggio, Ambrusine ru pecurarielle, dopo due giornate passate alla casa a nazzecà ru cetrije nato da poco, dovette tornare alle pecore. La madre gli preparò ‘na ponta di riso con il latte, come voleva la tradizione, e prima che andasse via, gli fece la sorpresa de nu pare de chjuchijtti gentili per la stagione. Passando per Santa Liberata, Ambrusine trovò Marenare assettate da fore alla scaluccia, ad ascoltare re cicjareijè delle capinere, insieme a maste Tobia l’eremita.
Marenare era stato congedato da don Mariano e siccome non aveva no case no puteche, la Congrega aveva mannate pure isse a Santa Liberata a fà ru rumite.
[1] Tratto dal n.3/2008 della “Rivista Abruzzese”- Rassegna trimestrale di cultura
[2] Perifrasi popolare per non nominare il Maligno
[3] Ore 12
[4] Ora nona: un’ora prima del tramonto
[5] Grumi
[6] A piovigginare
[7] Due ore dopo il tramonto
[8] Proverbio
[9] Non aver paura
[10] Gioacchino Murat
[11] Modo di dire popolare
[12] Lenticchie
[13] Proverbio
[14] Natica
[15] Deve venire
[16] Si è messo a letto
[17] Affermazione e negazione rafforzate; Cfr. in lingua le antiche madiasì e madianò
[18] Iperbole. Comunque Agnone è ricca di chiese e campanili
[19] Distico del Cav. Marino
[20] Pancia prominente
[21] Testa pelata
[22] Pistola a tamburo
[23] Massima delle medicina antica
[24] Narcisi selvatici
[25] della tosatura di maggio
Copyright “Rivista Abruzzese”- Rassegna trimestrale di cultura
Editing: Enzo C. Delli Quadri
Realistico racconto, intriso di saggezza contadina e non solo… anche il medico aveva il suo linguaggio specifico al tempo… Reali le difficoltà della TRANSUMANZA , dei pastori e degli animali, costretti al viaggio, che durava vari giorni “sott’acque e sotte vente” quando andava bene! Ma se interveniva un MALANNO , erano esposti tutti all’imperscrutabile destino—forse anche alla morte. Come non ammirare la fede bonaria e pacifica della gente di quel tempo—che inframmezzava i discorsi con continui proverbi e invocazioni!?
E a quella scuola si formavano anche i ragazzi che ubbidienti , durante il ritorno a casa certo non si distraevano ma “nazzecavane “ la cunnele” del fratellino o della sorellina, nati forse mentre essi erano a la “Puglia”
E ripartivano poi “nche NA PONTA DE RISE NCHE LU LATTE tradizione del giorno DELL’ASCENSIONE … Cosa questa che mi fa grande tenerezza, perché mi ricorda mia madre che lo faceva spesso, con la cannella, e ce lo dava con affetto!!
Racconto, vero, da leggere tutto d’un fiato, per non sciupare l’empatia e il calore della nostra PARLATA MOLISANA!
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Mi è piaciuto. Ma la Chiesa di San Giacomo ad Agnone non mi è nota. Esiste?
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