Manuela Pelle
Amico Mio e Mio Caro, finalmente oggi trovo un po’ di tempo per raccontarti un po’ di me e un po’ del mio Paese, quello dove fioriscono le rose selvatiche e che un giorno visiteremo insieme.
I racconti di storie e tradizioni servono a fartene innamorare e vorrei che, chiudendo gli occhi, tu possa immaginare quello che ti descrivo e viverlo insieme a me, non come il ricordo di un periodo felice e ormai perduto, attimo di vita cristallizzato, ma come un viaggio nel tempo, dove è possibile bere da un orciuolo di creta (la cicena) o attraverso un grosso ramaiolo (ru manier) affondato in una tina, rigorosamente di rame, e riscoprire un sapore strano di cose buone e semplici, soltanto con un sorso d’acqua.
Oggi voglio parlarti di qualcosa di antico e nello stesso tempo sempre attuale, tuttora onorato, ma gli officianti, oggi, celebrano questo rito con poco cuore, riducendolo ad un semplice lavoro da fare per forza.
Amico Mio, sto per parlati della Trebbiatura, lavoro arcaico e indifferibile che da sempre garantisce il sostegno minimo dell’uomo, felice ricordo per me che, bambina, insieme i miei genitori ero solo ospite in queste situazioni di duro lavoro svolto sotto il sole cocente ma che, considerato una festa, parimenti ad altre di cui ti parlerò in seguito, ci vedeva graditi ospiti.
Ai miei occhi, la Trebbia era enorme e rumorosa, color mattone; enormi cinghie nere contribuivano a farne un mostro antidiluviano che sganciava, da una parte una balla di paglia già pressata e tenuta insieme dal filo di ferro, dall’altra un fiotto di chicchi di grano, come da una ferita aperta;
in alto, il mostro sbuffava e ansimava, come un’animale trafitto a morte, una nuvola di pula che riempiva occhi e bocca e narici se ti avvicinavi troppo.
Il grano finiva in sacchi appositi, prezioso frutto.
Gli uomini sulla Trebbia, neri come il carbone per il sole (giravano più aie) e per il grasso del motore, urlavano e si sbracciavano con occhi roteanti per mantenere il ritmo, altri uomini provvedevano a scansare la balla di paglia, già pronta per fare spazio alla successiva.
Le donne, pesantemente vestite e con il fazzoletto sulla testa con le cocche ripiegate sulla sommità della stessa, a protezione del sole a picco, provvedevano alle mille piccole incombenze d’intorno, e offrivano ristoro porgendo da bere e poi dopo aver soddisfatto tutti, con grande naturalezza e senza nessuno sforzo apparente si caricavano gli enormi e pesanti sacchi, insieme agli uomini, e li caricavano sugli animali da soma sempre presenti o su carretti anch’essi tirati dai pazienti asini che insieme ai loro padroni dividevano il bottino in maniera equa, agli umani il grano a loro la paglia pulita e profumata.
I lavori, Amico Mio iniziavano all’alba ma si protraevano fino al tramonto, molti i manoppoli da spulare, molti i contadini da accontentare, se si finiva in fretta e dopo aver festeggiato il dono del grano, frutto del lavoro umano e della volontà divina si muoveva il mostro preistorico per portarlo su un’altra aia, dove tutto sarebbe ricominciato, il giorno dopo, nel nome di Dio…, un po’ ringraziandolo, se il raccolto era buono e il lavoro non si arenava, un po’ bestemmiandolo se qualcosa andava storto nel meccanismo magico della trebbiatrice, o un improvviso temporale estivo faceva sospendere il lavoro.
Alla sera, pur essendo stanchi, tutti trovavano il tempo per fermarsi a bere ancora un po’ di vino e a mangiare quel che nella casa del padrone del podere, si era preparato.
Qualcuno, più dotato e fantasioso improvvisamente tirava fuori un organetto, specie di piccola fisarmonica dai toni brillanti e leggermente acuti, che faceva si che i cuori, scaldati dal vino e gli occhi accesi per l’eccitazione, trovassero sfogo in danze tradizionali, veloci e briose.
La fatica e il sudore dell’ardente giornata, si stemperavano in un desiderio di comune divertimento, l’alba sarebbe arrivata in fretta e altre spighe di grano dovevano essere trebbiate.
Qualcuno si addormentava sull’aia, vinto dalla stanchezza e da qualche bicchiere di troppo, anche io abbracciata a mio padre, stanca della giornata, felice mi addormentavo sognando ancora il rito della trebbiatura
Tempi passati, tempi perduti, Mio Caro, sopravvivono nei miei occhi e nella mia memoria, come un fermo immagine perché impresso nella mente ma soprattutto nel cuore, tu li vivrai attraverso il mio racconto e con la forza dell’immaginazione, insieme, ripercorreremo quei giorni spensierati.
Amico Mio non puoi mancare di venire nel mio Paese, lì non solo fioriscono le rose selvatiche ma si coltivano i ricordi nei giardini della memoria. Ti aspetto.
Copyright: Altosannio Magazine
Editing: Enzo C. Delli Quadri
racconto molto particolareggiato che evidenzia momenti sconosciuti
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