
by Manuela Pelle
La mia famiglia aveva in ossequio molte tradizioni, come la maggior parte delle famiglie in paese, ed esse venivano celebrate come riti sacri; erano scandite dal tempo e dalle stagioni e non erano suscettibili di alterazione o anticipazione né dilatazione della tempistica e delle modalità con cui erano officiate.
Noi bambine sapevamo cosa succedeva a Natale, a Carnevale, a Pasqua, quando c’erano le feste delle innumerevoli Madonne, ferragosto, a novembre per la celebrazione dei morti, alla Concezione e tutte le altre occasioni sociali o di culto che l’anno solare proponeva, sgranando il rosario dei mesi.
Nel mio ricordo, erano tutte meravigliose e mamma era particolarmente attenta nell’insegnare a noi bambine come allestire, preparare, creare la giusta atmosfera. Io ero piccola ma la natura mi ha fornito di una memoria prodigiosa, e dunque ricordo con sufficiente esattezza i vari cerimoniali.
Era bellissimo il periodo dell’Avvento, ma anche la Quaresima, nonostante fosse un periodo luttuoso per la nostra Confessione e si osservasse il digiuno (noi bambine eravamo esentate) e il silenzio.
Tutto mi sembrava giusto e da seguire religiosamente; ciò che invece di tutta la serie delle tradizioni mi lasciava perplessa e non solo, era il periodo che andava da fine ottobre e fin quasi alla fine di novembre, periodo coincidente con le celebrazioni dedicate ai defunti.
La scomparsa di una persona cara mi era stata spiegata, così come può essere spiegata ad una bimba e tutto sommato mi lasciava indifferente né mai ho avuto timore del buio o di altre storie fantastiche che circolavano tra noi bimbi, nel quartiere dove abitavo.
In quegli anni felici tutti i miei cari erano giovani e in buona salute dunque il concetto di Morte non mi apparteneva inoltre, da bambini si è portati a credere che nulla possa alterare uno status considerato normale e inalterabile: i propri cari sono invincibili e sovrumani.
Io sono stata sempre una bimba, poco bimba e più bimbo, dunque era una continua sfida, per me, il non mostrare i timori tipici dell’infanzia e soprattutto delle femmine; ciò nonostante, c’era qualcosa nella tradizione del mese di novembre, dedicato alla commemorazione dei defunti, che mi impauriva pur senza ammetterlo.
Già alla fine di ottobre, esaurite tutte le feste religiose in paese subentrava un autunno uggioso e freddo. Sono nata in un Paese di montagna, il silenzio delle strade, spazzate dal vento e dalla pioggia, era quasi palpabile, una sottile nebbia, umida e penetrante, invitava tutti a stare a casa e a godere delle gioie domestiche come il fuoco nel caminetto, lo sfaccendare della mamma, i compiti da svolgere, una buona merenda. A casa mia, in quei giorni particolari, si raccoglievano gli ultimi fiori in giardino: dalie e crisantemi, qualche raro gladiolo, erano i fiori destinati alle tombe dei nostri cari di cui io non avevo nessuna memoria, ascoltavo solo mamma che citava nonno Luigi (il mio bisnonno), nonna Carolina (la mia bisnonna) zii e zie le cui foto impettite in bianco e nero mi facevano sorridere per gli abiti indossati e gli atteggiamenti estremamente statici; poi si disponevano, in casa, le famigerate “buttiglie” dal collo largo, tanto da contenere una parte della lunga stearica bianca che, accesa, si sarebbe consunta coi giorni, immediatamente sostituita da un nuovo cero fino alla fine di novembre.
Quando chiesi per la prima volta il perché di quella tradizione, mi fu risposto che la luce delle candele serviva perché le anime dei trapassati riconoscessero le proprie dimore e tornassero a farci visita… loro a noi!… per poter rivedere ancora una volta i propri cari, ma anche per ritrovare e toccare ancora una volta gli oggetti che avevano fatto parte della loro vita.
Vi meravigliate? Le nostre case, le più antiche, conservavano le vestigia di un tempo passato con mobili, quadri e vasellame, in alcuni casi anche bauli con abiti e cappelli, ma di questo vi parlerò un’altra volta.
A casa mia, come in molte altre case, c’era un grande rispetto per questa tradizione e le bianche candele illuminavano il subitaneo buio dell’autunno incipiente.
Le candele erano posizionate lungo l’ultima gradinata, “le schiel” (le scale), che portava a “ru pésel” (il soffitto) e che partivano immediatamente dal piano dov’era la mia camera da letto. Per raggiungere la mia camera la sera salivo due gradinate, casa antica su più piani, lasciando le luci allegre della cucina, dove brillava ancora anche il fuoco, ascendevo con cautela le scale appena illuminate. Non accendevo le luci, perché non avrei mai ammesso di avere paura.
I gradini erano neri e scuri (tirati a lucido con cera e negrofumo) e si perdevano nel buio salendo, li indovinavo per l’abitudine e la conoscenza. Più salivo, sembravano essere infinite quelle gradinate, e più un chiarore sinistro mi veniva incontro proiettando ombre sulle pareti,
Le ombre si trasformavano in esseri deformi e minacciosi che sembravano allungare le loro braccia verso di me, ero senza fiato e mi fermavo. Mamma che credo avesse capito le mie paure, considerato che in casa non si sono mai fatti misteri su certi argomenti rappresentandoli in tutta la loro schiettezza, mi chiamava dalla cucina mentre salivo per rassicurarmi ed io con un ultimo scatto salivo i gradini rimasti quasi volando.
Il momento peggiore stava arrivando, perché le candele erano posizionate dal gradino “abbocca” (vicino) alla porta della mia camera a salire: ora era necessario raccogliere tutto il coraggio che avevo e cercare di raggiungere la maniglia, entrare e chiudermi alle spalle quell’anticamera dell’Ade che diventava casa mia in quel periodo.
Uno sguardo fugace “capammond pe le schiel” dove tutte le fiammelle ondeggianti delle innumerevoli candele, ballavano la loro macabra danza, mentre l’aria era piena del fumo di qualche stoppino, non ben fatto, che bruciava, e via dentro la camera chiudendo fuori tutto ciò che a dispetto di ciò che lasciavo intendere, e cioè di essere spavalda e senza timori, mi faceva paura, il rischio secondo la me di allora, era la possibilità che potessi impattare in qualcosa che non conoscevo e senza caratteristiche umane e la cosa mi spaventava moltissimo
Oggi quel ricordo mi fa sorridere, dopo qualche anno ho imparato che non bisognava avere di questi timori e che la luce fioca, emanata da una candela, era soltanto l’espressione di un rito che, ci si creda o no, andava e va ancora compiuto, perché la vita e la morte possano trovare un punto di incontro, che giustamente non avviene in piena luce, ma neanche nelle tenebre profonde. Non distinguere i contorni l’una dell’altra aiuta a credere nella vita e ad accettare la morte.
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Editing: Enzo C. Delli Quadri
Copyright: Altosannio Magazine
Il tuo BEL racconto piacevole e reale ricorda le tradizioni dei ns paesi e le esalta, memore di qualche paura… pur avendo, TU, la mamma che ti accompagnava “con la sua voce” per le scale! Anche a casa mia si salivano le scale per andare a dormire, ma io e la sorellina più piccola le salivamo tenendoci per mano, ORFANE di mamma a 6 anni e a 3 anni! E senza cannoele- senza candele!
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