Agnone storia dimenticata di un grande centro d’arte – Parte Quarta

Siamo a metà dell’Ottocento. Agnone “è un paese laborioso di opera varia e utile, che, per certi versi è anche modestamente artistica e ingegnosa”. Sono queste le parole che Luigi Gamberale[1] all’epoca ragazzo, utilizza nel suo “Il mio libro paesano”. Scritto all’inizio del Novecento consente una visione del momento storico vissuto dal Paese in un momento di particolare sviluppo ma già alle prese con questioni ancora molto attuali, dopo quasi due secoli di distanza.
Credo di far cosa gradita, agli amici di Agnone, pubblicare a puntate, l’introduzione al suddetto libro, curata da Sebastiano Martelli [2]. Chi vorrà leggere il libro lo troverà presso la libreria Ricci di Agnone.
La decisione della pubblicazione è stata in qualche modo influenzata dalla lettura di alcuni dati demografici riproposti in questo inizio di anno 2023 dai quali emerge come Agnone avesse a quell’epoca quasi 12.000 residenti ed era secondo solo a Campobasso che ne aveva poco più di 14.000.

Qui la Parte Prima https://altosannioblog.wordpress.com/2023/02/01/agnone-storia-dimenticata-di-un-grande-centro-darte-parte-prima/
Qui la Parte Seconda  https://altosannioblog.wordpress.com/2023/02/02/agnone-storia-dimenticata-di-grande-centro-darte-parte-seconda/
Qui la Parte Terza  https://altosannioblog.wordpress.com/2023/02/03/agnone-storia-dimenticata-di-grande-centro-darte-parte-terza/

Parte Quarta

La scuola venne riaperta nel novembre successivo, ma le condizioni politiche del Regno intanto si aggravavano: il rifiuto degli insegnanti della scuola di firmare il “manifesto” cosiddetto del popolo con cui si chiedeva a Re Ferdinando di abolire lo statuto appena concesso decretò la chiusura della scuola; passata la bufera verrà riaperta, soprattutto per iniziativa di Ascenso Marinelli, nell’anno scolastico 1851-’52. Seguirono due anni in cui la scuola, sotto la guida dei quattro maestri, acquistò fama oltre i confini regionali e diede ad Agnone un imprinting di cittadina europea, come scrive Gamberale: «Chi, in que’ due anni, fosse capitato in Agnone per la prima volta avrebbe potuto credere di essere giunto in una di quelle cittadine tedesche, diventate famose per la loro cultura e per l’allegra baraonda studentesca».
L’istituto Lucci chiuse nell’autunno del 1854, ma il modello di quell’istituzione fu ripreso e continuato con alterne vicende tra aperture e chiusure dal più giovane dei quattro, Ascenso Marinelli; per tutti gli anni cinquanta i quattro maestri, cui si aggiunsero altri più giovani come Labanca e Pannunzio, continuarono a tenere scuola in vari modi e a svolgere anche una sotterranea opera di diffusione delle idee liberali poiché, come Amicareli aveva insegnato ai suoi giovani alunni, «bisognava consacrare al paese anche una parte della propria azione».

Francescantonio Marinelli non lasciò scritti di rilievo né creativi né relativi alle sue vaste competenze linguistico-didattiche che dalla scuola del Puoti aveva trasferito nel suo insegnamento agnonese, non aveva «indole di scrittore» come scrive Gamberale che aggiunge anche: «quella sua qualità innata all’analisi minuta e il lungo quotidiano esercizio, con cui l’aveva educata, nutrita, accarezzata, gli nocque», rimase prigioniero e vittima del suo stesso metodo; quando scriveva

era dominato dalle convinzioni della scuola da cui veniva. E allora non pensava che alla forma; e per essa abbandonava il pensiero, non curando alcuna selezione, cercando solamente di dare ai periodi l’andamento e la tornitura che la mentalità di sei secoli fa soleva dar loro: una mentalità arcaica. Anche gli nocque la nessuna conoscenza di ogni qualsiasi letteratura straniera; se l’avesse avuta, avrebbe visto che non solo gli antichi, ma anche i moderni hanno efficacia di forma [] Non fu uno scrittore, ma una coscienza (p. 188).

Ma di notevole importanza fu il ruolo avuto da Marinelli a partire dal 1861, quando passa all’insegnamento pubblico con incarichi di preside e di provveditore in diverse città: L’Aquila, Chieti, Benevento, Macerata, Livorno, Pisa; ma soprattutto quale provveditore a Campobasso, dal 1869 al 1876, e di nuovo a partire dal 1881, diede un forte impulso all’istruzione pubblica nel Molise, prima con la fondazione della Scuola Magistrale e poi della Scuola Normale Maschile’° al fine di favorire la formazione di una classe magistrale con cui, per qualità e quantità, si riuscisse ad affrontare la questione inderogabile di una istruzione primaria diffusa in tutti i comuni:

Ora è venuta la nostra volta, quella tanto invocata civiltà, alla quale sospirammo per lunghi ed amari giorni [..] Le province meridionali hanno virtù e spiriti antichi [.] Qui non ci vuole che una paziente ed amorevole educazione per disciplinare le maggiori forze morali e intellettuali. Di qui deriverà alla comune patria una gran parte della sua grandezza e del suo decoro. Tutte le province faranno a gara, e molte ne detter già non dubbi segni, per attuare e stabilire nel miglior modo possibile la istruzione del popolo. Non sia l’ultima la nostra!!!

Marinelli muore nel 1892 e nel discorso funebre Gamberale riesce a trovare le parole giuste per indicare i tratti peculiari di una personalità che tanto peso aveva avuto nella sua vita e nella sua formazione, come in quella di tanti altri allievi e quindi nella comunità agnonese: egli sapeva «leggere nelle ..] anime» dei giovani, li «consigliava» e li «guidava» senza «opprimerli, invitava a crescere nella «libertà»:

Ora ci sono professori ed alunni, insegnanti e scolari, una volta ci erano maestri e discepoli nel senso evangelico, nel senso apostolico, nel senso socratico della parola. Non ci era allora la pedagogia con i suoi mille ammennicoli inutili; non ci era questa scienza, che cura i margini e lascia inaridita la sor-gente; ma vi era essa, la sorgente della vita, vi era un’anima che migliorava le anime, vi era la vita che suscitava la vita. [… noi siamo calcolo ed essi furono affetto; noi il sillogismo incolore, essi l’azione suggestiva; noi la parola arida, essi l’idealità; noi gli epigoni, essi i semidei (pp. 185-186).

Diversamente dal Marinelli, proprio negli anni cinquanta, durante i molti mesi in cui, per ragioni politiche doveva stare nascosto o rifugiarsi a Napoli, Amicarelli riuscì a trasferire nella scrittura le sue competenze e riflessioni linguistico-didattiche sperimentate nella scuola agnoneseNel volume Della lingua e dello stile italiano. Lezioni, apparso a Napoli nel 1858 con il sostegno degli allievi della scuola del Puoti, tra i primi Bruto Fabbricatore, ritroviamo la linea egemone nell’ambito della cultura letteraria e linguistica molisana, quella cioè di un moderato classicismo-purismo aperto ad istanze politico-ideologiche liberali e che maggiormente nel caso di Amicarelli conferma la giustezza di analisi critiche che hanno avvertito a non leggere la cultura del primo Ottocento alla luce di una dicotomica contrapposizione tra classicisti e romantici, gli uni «tutti retrivi filo austriaci» e gli altri “tutti spiriti liberi e antiaustriaci” o nel nostro caso antiborbonici, indicazioni che se applicate alla cultura delle province possono dare risultati utili e fruttuosi e soprattutto mostrare una varietà di posizioni che arricchisce di molto il quadro nazionale!3.
Le Lezioni di Amicarelli sono sviluppate intorno all’assioma della lingua come elemento costitutivo della civiltà di un popolo; una lingua come strumento fondamentale e dinamico che riesca ad unificare in un unico percorso le finalità del “bello”, del “vero” e del “bene”, come dice nella dedica a Francescantonio Marinelli, una formula che, sebbene superata, allude alle componenti principali di una riflessione che traduce il discorso linguistico-letterario-didattico del purismo puotiano in un peculiare connubio con le degnità vichiane del certo e del vero, della filosofia e della filologia e a quelle etico-civili da prolungare anche nell’azione in particolari frangenti storici.
Nonostante l’assenza di riferimenti a Manzoni sia romanziere che teorico della lingua, in realtà le idee linguistiche di Amicarelli possono essere collocate in quel complesso di opere ed autori che nell’Italia meridionale favorirono l’innesto della tradizione purista nella nuova teorizzazione manzoniana, una «testimonianza della consapevolezza linguistica degli intellettuali meridionali e della loro tensione verso una lingua sovraregionale di tipo toscano nonché, indirettamente, della diffusione dell’italiano negli anni a ridosso dell’Unità»; essi «promossero con le loro indicazioni e riflessioni sulla lingua la ricerca e l’abitudine alla lingua comune, sia pure di tipo letterario, presso il ceto colto, facilitando indirettamente l’accettazione, senza brusche fratture, della proposta manzoniana di una lingua d’uso»
Un quadro confermato dagli scritti numerosi dell’altro maestro della scuola agnonese, Ascenso Marinelli, anch’egli dopo il 60 insegnante in diversi licei italiani e autore di opere sulla lingua e sulla storia letteraria nella linea di quel classicismo-purismo di cui continuerà ad essere sostenitore nel ventennio successivo all’Unità, riaffermando con accenti settembriniani e desanctisiani la validità dell’esperienza purista, la cui funzione culturale e
“politica” è recuperata al di là delle infatuazioni, delle intransigenze e delle pedanterie del purismo e dei suoi seguaci; egli rivendica il carattere fondamentale dell’esperienza della scuola agnonese: le connessioni fra letteratura e politica, fra questione della lingua e movimento risorgimentale; un esperimento didattico teso a porre la Scuola non come luogo di studi inerti, ma come «sede naturale» della «grande idea della libertà», cui educare i giovani con una «lezione viva e continua».
Dalle pagine di Gamberale dedicate all’Amicarelli emerge una personalità dalle molte sfaccettature, molto più complessa degli altri due maestri, segnata da un’infanzia e un’adolescenza irregolari su cui circolavano in città diversi aneddoti: vivo per miracolo dopo una tremenda caduta, capacità parapsicologiche, amori mancati, sfiorati o forse in parte vissuti, passione per il gioco; una personalità forte, dalla intelligenza viva, ma anche con i suoi turbamenti, le sue sofferenze e i suoi segreti, occultati per una scelta esistenziale e mo-rale, come lascia intendere Gamberale riportando nel libro la sua criptica lettera al Marinelli. Uomo integerrimo negli incarichi pubblici, eccellente preside-rettore del Liceo “Vittorio Emanuele” che diresse per ventiquattro anni fino al 1888, facendone un modello avanzato di scuola pubblica tanto che veniva appellato dalle autorità scolastiche «la balia dell’istruzione pubblica a Napoli».
Nell’ultimo scorcio della sua attività anche Amicarelli ebbe le sue amarezze nei rapporti con le autorità superiori ministeriali, all’origine forse, secondo Gamberale, della malattia che lo portò alla morte in pochi mesi; una scomparsa avvertita da tutta l’intellettualità napoletana, di cui è testimonianza l’immagine di D’Ovidio che piange seduto su un gradino dello scalone che portava all’appartamento in cui Amicarelli sta per morire; da un saggio arcivescovo riceve l’assoluzione e la comunione che gli erano state negate per trent’anni dopo che in parlamento aveva dato il suo voto favorevole per Roma capitale.
Gamberale, insieme all’ammirazione per l’Amicarelli come maestro, non tace, così come aveva fatto per Marinelli, le riserve sui suoi scritti, in particolare sul volume Della lingua e dello stile italiano, in cui pur nutrito delle teorie di Giordani, Perticari, Gioberti e della prosa leopardiana – fu un «adorato-re della prosa leopardiana» – rivela che la sua «mentalità e dottrina» erano «molto al di qua del segno buono e giusto»; così come al Marinelli, anche all’Amicarelli «mancava il moderno e il contemporaneo, che avevano oltrepassato di tanto il punto ch’egli si era prefisso e a cui era giunto», anche se le sue Lezioni hanno una solidità superiore a quella di gran parte dei manuali scolastici coevi e anche di molti successivi.
Per il ritratto dedicato all’Amicarelli, Gamberale può utilizzare una fonte autorevole, il profilo che oltre un decennio prima Francesco D’Ovidio aveva dedicato al suo preside e poi amico”, anche se in qualche punto non tralascia discrete puntualizzazioni rispetto alla ricostruzione dovidiana di episodi della vita di Amicarelli. Per D’Ovidio, che ne disegna un efficace e denso ritratto e ricostruisce numerosi episodi e vicende dell’intero arco della sua vita, Amicarelli «ricordava quegli abati, non già troppo mondani o scettici, ma non immemori dei sensi d’uomo e di cittadino […) Ti pareva un ultimo e modesto avanzo di quella schiera gloriosa cui appartennero l’abate Parini e l’abate Gioberti».
Circa le Lezioni già D’Ovidio sottolinea che considerati i tempi in cui l’opera era stata scritta andava giudicata un’operazione valida, anche per la novità di una «storia letteraria» agganciata alla storia della lingua; né «manzoniano» né «purista», il suo autore propugna una «classicità disinvolta» veicolata dall’ «agilità» e dal «buon gusto», mirata all’insegnamento di un italiano scritto «con correttezza e misura», «facendo tabula rasa di tutto il ricettario» tradizionale in uso nelle scuole. Insomma non sfugge al D’Ovidio che in Amicarelli il discorso linguistico si intreccia con quello letterario e con quello storico lungo un crinale in cui storia letteraria e storia civile divengono inscindibili; anche per D’Ovidio l’uomo, il Maestro, «com’è pur di altri di quella generazione, valeva più dell’opera›?.

Diverso destino ebbe il terzo dei maestri della scuola agnonese, Giuseppe Nicola D’Agnillo: nel 1861 insegnò nel liceo a L’Aquila, successivamente fu nominato a Pavia ma rifiutò; accettò per alcuni anni di insegnare nelle scuole private di Agnone, prima di ritirarsi dall’insegnamento e da ogni contatto col mondo. Negli anni della scuola agnonese, in cui insegnò già dal 1848, pur aderendo ai metodi e ai contenuti del classicismo-purismo, anche nella pratica didattica dava slarghi significativi affiancando a Dante, che occupava ovviamente un posto privilegiato, letture dei drammi di Shakespeare e di Hugo, di testi di Goethe e Leopardi, mediate dalla sua forte propensione alla creatività poetica e dagli interrogativi filosofici ed esistenziali che agitavano la sua anima. In stora e profezia ovvero Dante e l’Italia, pubblicato nel 1862 dalla torinese «Rivista contemporanea», adottando lo schema metrico della cantica dantesca, immagina un viaggio di Dante nella nuova Italia unificata; un’opera che per stile e contenuti è perfettamente coerente con le posizioni dei puristi di seconda generazione in cui il background classicistico si collega fortemente a «intenti nazionali e patriottici». D’Agnillo lascia più libero spazio alla sua vena creativa che anche per la condizione esistenziale da cui era alimentata trova più naturale propensione verso una letteratura di impronta romantica: ed è soprattutto la poesia drammatica di Hugo, dopo i drammi shakespeariani, a fornirgli i modelli per la trilogia drammatica, raccolta poi a distanza di anni in Nobiltà ed arte (1897). Con questo approdo D’Agnillo solo in parte aveva tralignato rispetto al modelli letterari dei suoi amici e colleghi della scuola agnonese perché la lingua usata in questa sua trilogia, pur alleggerita di molti arcaismi e latinismi come delle forme più antiquate, rimane aderente ad un classicismo sicuro ed elegante. Un dato che del resto avvicina D Agnillo ad una peculiarità tutta italiana dell’Ottocento, per la quale anche i poeti romantici, sotto il peso della tradizione, praticano soluzioni linguistiche fortemente imbrigliate da modelli, lessico e stile classicisti'”.
Il ritratto di D’Agnillo che emerge dalle pagine di Gamberale è quello forse narrativamente più suggestivo: allevo accompagna il maestro con discrezione e delicatezza nella sua discesa agli inferi della macerazione esistenziale, del suo calarsi nel pozzo della solitudine e del rifiuto del mondo: trascorre gli ultimi trent’anni della sua vita «sepolto vivo» in casa senza neppure affacciarsi alla finestra. Non era riuscito a fermare il suo precipitare nell’abisso neppure il trionfo arriso ai suoi due drammi Griselda e La Duchessa di Bracciano, rappresentati nel 1868 al teatro Fondo di Napoli dalla Compagnia Sadowski, e il consenso di un autore e critico teatrale come Torelli, che in una lettera aveva appellato D’Agnillo uno «Shakespeare redivivo».

La provincia molisana era anche questo, tra Settecento e Ottocento e fino al primo quindicennio del Novecento, un habitat particolare dove in un cono d’ombra si consumavano vicende intellettuali ed esistenziali; Francesco Jovine in uno splendido frammento di prosa giornalistica scrive di questa intellettualità della provincia meridionale: «passavano passioni politiche ed eresie sulle loro anime, si accendevano solitarie crisi, talvolta forse drammi intimi che non potevano essere confortati da affettuose solidarietà di amici»; anche tutto ciò deve essere messo nel conto di quella borghesia rurale del Mezzogiorno «spesso accusata di essere retriva e municipale, [che] fu per molteplicità di interessi spirituali, per cultura e intelligenza veramente italiana ed europea».

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