Agnone storia dimenticata di un grande centro d’arte – Parte Quinta

Siamo a metà dell’Ottocento. Agnone “è un paese laborioso di opera varia e utile, che, per certi versi è anche modestamente artistica e ingegnosa”. Sono queste le parole che Luigi Gamberale[1] all’epoca ragazzo, utilizza nel suo “Il mio libro paesano”. Scritto all’inizio del Novecento consente una visione del momento storico vissuto dal Paese in un momento di particolare sviluppo ma già alle prese con questioni ancora molto attuali, dopo quasi due secoli di distanza.
Credo di far cosa gradita, agli amici di Agnone, pubblicare a puntate, l’introduzione al suddetto libro, curata da Sebastiano Martelli [2]. Chi vorrà leggere il libro lo troverà presso la libreria Ricci di Agnone.
La decisione della pubblicazione è stata in qualche modo influenzata dalla lettura di alcuni dati demografici riproposti in questo inizio di anno 2023 dai quali emerge come Agnone avesse a quell’epoca quasi 12.000 residenti ed era secondo solo a Campobasso che ne aveva poco più di 14.000.

Qui la Parte Prima https://altosannioblog.wordpress.com/2023/02/01/agnone-storia-dimenticata-di-un-grande-centro-darte-parte-prima/
Qui la Parte Seconda  https://altosannioblog.wordpress.com/2023/02/02/agnone-storia-dimenticata-di-grande-centro-darte-parte-seconda/
Qui la Parte Terza  https://altosannioblog.wordpress.com/2023/02/03/agnone-storia-dimenticata-di-grande-centro-darte-parte-terza/
Qui la Parte Quarta https://altosannioblog.wordpress.com/2023/02/04/agnone-storia-dimenticata-di-grande-centro-darte-parte-quarta/

Parte Quinta

La provincia molisana era anche questo, tra Settecento e Ottocento e fino al primo quindicennio del Novecento, un habitat particolare dove in un cono d’ombra si consumavano vicende intellettuali ed esistenziali; Francesco Jovine in uno splendido frammento di prosa giornalistica scrive di questa intellettualità della provincia meridionale: «passavano passioni politiche ed eresie sulle loro anime, si accendevano solitarie crisi, talvolta forse drammi intimi che non potevano essere confortati da affettuose solidarietà di amici»; anche tutto ciò deve essere messo nel conto di quella borghesia rurale del Mezzogiorno «spesso accusata di essere retriva e municipale, [che] fu per molteplicità di interessi spirituali, per cultura e intelligenza veramente italiana ed europea».

Nel libro di Gamberale non c’è solo la ricostruzione delle vicende di questa intellettualità e della sua attività culturale ed educativa; nelle pagine entrano scorci di vita della città e della sua gente, come pure il vissuto degli alunni dentro e fuori le mura della scuola: Don Beniamino, rù pazzu rì Palosso, che insegue Gamberale e i suoi compagni con un bastone da cui fuoriesce «una lama luccicante»; le ore di libertà lungo «quel campione di strada rotabile» dove i ragazzi davano sfogo alla «libera capestreria giovanile» anche con battaglie a lanci di pietre che spesso lasciano qualche segno. Giochi poveri necessitati dalle pulsioni giovanili verso i quali ci sono lo sguardo e la comprensione del maestro Marinelli, che invece non è disposto ad averla nei confronti di trasgressioni che riguardano la sfera morale: ed è proprio il suo rifiuto, opposto al Vescovo di Trivento, di soprassedere all’espulsione di un ragazzo abruzzese, che si era macchiato di «grave immoralità», a offrire l’occasione per la chiusura dell’istituto Lucci.

La chiusura dell’istituto fu per Agnone «una grande iattura: iattura di vita animata, iattura d’interessi»: la presenza di oltre un centinaio di giovani aveva cambiato la vita della città, aveva animato la vita sociale, religiosa con ricadute anche economiche poiché i ragazzi erano ospiti delle famiglie:

I negozi di qualsiasi natura facevano migliori affari, e perciò ne sorgevano di nuovi e i vecchi si trasformavano ed abbellivano: si notava in ogni cosa una certa agiatezza crescente una circolazione insolita di numerario (p. 46).

Alla scuola di Agnone non mancano naturalmente insegnanti non all’al. tezza del compito, come Raffaele Vecchiarelli, che presto viene sfiduciato dagli alunni, ma in realtà tutta la sua carriera è fallimentare tanto che terminerà con una destituzione definitiva. Nel 1859 si affaccia sulla scena della scuola agnonese Baldassarre Labanca che insegna filosofia del diritto utilizzando i testi di Rosmini, «suo filosofo preferito». Gamberale ne apprezza la grande dedizione agli studi, «lavoratore [.] ostinato», ne critica una certa dispersione negli studi, «troppo vari e troppo variati», ma nello stesso tempo ne esalta il coraggio per le sue posizioni moderniste, combattute aspramente dalla Chiesa ufficiale, espressione di tolleranza e di una concezione della divinità aperta, non dogmatica:

le religioni di tutte le razze umane, che vissero e vivono, sono l’espressione di una medesima necessità umana, sono i simboli di un’idea unica e comune a tutti. Il cattolico, il protestante, il buddista, il maomettano divennero per lui tutti fratelli suoi nella comunione che con essi ebbe in questa grande idea dell’esistenza divina: e per questa sola idea ebbe speranza che un tempo gli uomini tutti sarebbero diventati tra loro fratelli buoni (p. 137)”.

Negli anni 1858 e 1859 nella scuola agnonese il clima cambia, la dimensione politica entra in campo e contagia maestri ed allievi incuneando la consapevolezza che era ormai il tempo di dare spazio all’«azione» e collaborare al progetto dell’unità nazionale, sollecitato da un’idea condivisa di Italia; sottolinea acutamente Gamberale: forse le linee di questo progetto, le sue ragioni storico-politiche erano il prodotto di una élite, di «spiriti eletti» e «’unità d’Italia non era un concetto concreto della coscienza», ma comunque era «nella subcoscienza di tutti».
Anche in questa fase è la Chiesa locale a svolgere un ruolo di avanguardia: i maestri-preti della scuola agnonese (Amicarelli, D’Agnillo, Tamburri) – portatori dell’idea che la dimensione «religiosa» dell’«opera» di sacerdote non possa essere separata da quella «civile» – utilizzano le chiese per i loro panegirici, ricolmi di messaggi politici variamente espressi con metafore, al-legorie, allusioni, richiami simbolici, «uscite pubbliche e solenni [chel eccita-vano, tenevano deste le speranze in un migliore avvenire». Tutto questo era già stato praticato nella prima metà degli anni cinquanta, sottolinea Gambe-rale, a testimoniare come la Chiesa godesse di una sorta di extraterritorialità e soprattutto come i maestri svolgessero un’azione politica di lunga durata per tutto il quindicennio prima dell’Unità. Del ruolo politico-culturale di un certo clero delle province meridionali è D’Ovidio a disegnare acutamente – anche per la sua diretta conoscenza di questa realtà – alcuni peculiari tratti proprio riferendosi alla situazione delle province molisane e abruzzesi e più specificamente a quella agnonese:

Un attraente capitolo della storia del nostro risorgimento sarebbe quello concernente la partecipazione viva del clero meridionale, soprattutto del basso clero, alla febbre del patriottismo. Dico del clero nelle provincie, ché quello della capitale era ed è, in massima, notevolmente diverso. Il sacerdozio era quasi tutt’uno con la professione didattica e con la consacrazione allo studio delle lettere o della filosofia; e ciò forse spiega in gran parte che un rinnovamento civile, vagheggiato e attuato specialmente da pensatori e letterati, trovasse tanti fautori ed attori nella classe dei preti. E più particolarmente tra quei preti che, appunto perché di più alto animo e di più singolare ingegno e coltura, restavano confinati nei più umili gradi del sacerdozio, essendo dalla gerarchia ombrosa e affiatata con la tirannide tenuti lontani dagli onori ecclesiastici; né si distaccavano dalla famiglia e dai cittadini, anzi s’affratellavano cogli oppressi e coi cospiratori, spesso divenendo i più autorevoli capi d’ogni cospirazione??

Un clero che «vive così unito al resto della cittadinanza, da partecipare più ai vizi e alle virtù di questa che non coltivare vizi e virtù sue proprie; «elette figure di sacerdoti» che «non si distinguevano dagli altri cittadini virtuosi, e fra tutte le carità predicano prima e somma quella verso la patria, Nell’anno che precede la fine del governo borbonico, l’azione politica si intensifica, i maestri, soprattutto l’Amicarelli, con l’adesione piena degli allievi spingono sull’acceleratore: da Napoli Aristide Fabbricatore spedisce all’Amicarelli il «Corriere di Napoli» che viene recapitato con espedienti vari per evitare il sequestro da parte della polizia locale; scoperto, l’Amicarelli è costretto a fuggire e a nascondersi nei paesi vicini. Ma il giornale continua ad arrivare al Comitato agnonese per l’Unità che nel frattempo si è costituito e il giovane Gamberale diventa una staffetta incaricata di consegnare le copie del giornale, perfino quella destinata al Giudice Regio. Episodi raccontati da Gamberale anche con una certa agilità narrativa, coerente con quel clima agnonese senza grandi strappi e lacerazioni, che vede significativamente il Giudice Regio offrire «una buona tazza di caffè» al «bravo giovanotto» che in più occasioni gli ha rifilato il giornale nelle tasche o glielo ha consegnato a casa.

Una copia del Rinnovamento di Gioberti sciolta in fogli viene dai maestri affidata agli alunni che mettono in circolazione i fogli in una sorta di catena di montaggio che consente a tutti la lettura integrale del testo; gli stessi fogli che di notte vengono letti dagli alunni «adunati in qualcuna delle nostre case». Anche su questo le pagine di D’Ovidio raccolte in Rimpianti ci consentono delle utili e significative integrazioni: Gioberti se ebbe una «presa … imperfetta e fugace sullo stesso soglio pontificale»,

ebbe una virtù ben altrimenti piena e durevole sul clero lontano dalla curia papale. Così alla mondanità interessata e politica della curia, e di quasi tutto l’alto clero, faceva bel contrapposto la mondanità buona e patriottica di tanti umili preti, che, pur essendo talora fervidi credenti, in tutto ciò che fosse aspirazione o cospirazione cittadina non si distinguevano in nulla dai laici, se non forse qua e là nella maggiore energia delle idee ed efficacia nella propaganda. S’è detto recentemente che il Gioberti, come aveva tratto grande ispirazione da alcuni sommi filosofi meridionali, così ebbe il suo maggior séguito nel Mezzogiorno. Ed è vero: qui più che altrove abbondavano le condizioni e le persone particolarmente indicate ad accogliere il suo verbo, e a custodirlo lungamente con fede invitta.

Gli avvenimenti nel delicato passaggio all’Unità confermano la facies politico-sociale agnonese che nella Chiesa ha il suo asse coesivo svolgendo, soprattutto con i suoi preti-insegnanti, un ruolo di mediazione da posizioni di liberalismo moderato; significativo quanto racconta Gamberale: nell’aprile del 1860, una sommossa per il rincaro del prezzo del pane viene «repressa prontamente dai liberali, il cui aiuto era stato implorato dai più noti borbonici del paese» e comunque «la reazione non era riuscita né sanguinosa, né saccheggiatrice». Ed è uno dei maestri di Gamberale, il prete Giuseppe Tamburri, suo insegnante di filosofia e fervido giobertiano, a farsi carico della sicurezza della città nel traumatico passaggio allo Stato unitario con le insorgenze borboniche e brigantesche prolungatesi ben oltre la caduta del Regno meridionale. Tamburri raccoglie intorno a sé un gruppo consistente di giovani, tra i primi molti suoi ex alunni, cui si affiancano «artigiani», formando una compagnia di ottanta giovani che riesce non solo a mantenere l’ordine pubblico ma ad assicurare una transizione senza distruzioni e lutti.

Anche il quindicennio successivo degli svolgimenti politici in Agnone conferma quanto quella classe intellettuale agnonese, formata da preti di notevole spessore culturale, aperti alle idee liberali, fosse espressione organica di una facies sociale cittadina che ne riconosce il prestigio intellettuale ed umano e ad essa si affida. Non è un caso che proprio il Tamburri divenga un leader politico – prima consigliere provinciale e poi sindaco – con un impegno totale tanto che «ci rimise la vita». Il consenso popolare di Tamburri è tale che viene eletto al parlamento nazionale ma si dimette per cedere il posto a Ruggero Bonghi, una candidatura frutto dei suggerimenti di maestri e allie. vi della scuola agnonese Tamburri, Marinelli e lo stesso Gamberale – e che suscitò meraviglia in Ruggero Bonghi non riuscendo egli a spiegarsi come un’offerta simile potesse venire da una cittadina tra le montagne del Sud ma, una volta venuto a contatto con la comunità agnonese «ebbe la prova sicura che molti conoscevano lui, l’ingegno suo, i suoi scritti».
La sconfitta di Bonghi nelle elezioni del 1876, in cui gli fu preferito Nicola Falconi – che va a sedere sui banchi della sinistra – sembra a Gamberale un avvenimento che segna una svolta nella storia della città: una sconfitta che segue di due anni la morte del sindaco Tamburri e che segnala come si sia rotto quel circuito virtuoso tra intellettuali, maestri, Chiesa e società civile che aveva costituito /’imprinting della storia della città, toccando il suo momento più significativo nel venticinquennio precedente.

Il 1876 è una data che ha riverberi non solo su Agnone ma anche sulla vita di maestri e allievi della scuola agnonese: il ministro Nicotera, avverso alla candidatura di Bonghi nel collegio di Agnone, decide l’immediato trasferimento di Marinelli, provveditore a Campobasso, nella sede di Potenza; a Campobasso ritornerà dopo alcuni anni di varie assegnazioni (Macerata, Pisa e Livorno) e continuerà a dare sostegno e direttive alle due scuole normali da lui create.

________________________

[1] Luigi Gamberale fu un professore, scrittore, preside e traduttore, nato ad Agnone nella prima metà dell’Ottocento, periodo particolarmente significativo per la cultura dell’alto Molise.
[2] Sebastiano Martelli è professore ordinario di Letteratura italiana presso l’Università di Salerno e direttore del Dipartimento di Studi Umanistici presso la stessa Università.

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