Il fascino dei Ramai e l’importanza di uno sputo

di Emidio Patriarca [1]

L'arte del rame

All’età di 10/11 anni andai a vivere in casa del nonno Emidio nelle vicinanze della chiesa dedicata a San Nicola. A poche decine di metri da casa lavoravano nel loro laboratorio i fratelli Guido, Fausto e Tonino Cimmino con il cognato mastro “Angiulino” Serafini e facevano i ramai. Io, trascorrevo interi pomeriggi nella loro bottega, ero affascinato dalla loro manualità e bravura.

Ramai - ForgiaAl centro di tutte le attività della bottega c’era la forgia (foto), che comprendeva un “mantice” per soffiare aria e un focolare a forma di calotta sferica rovesciata, in terra refrattaria, dove arrivava l’ugello ed era posto del carbone “Coke” a pezzi di 3 o 4 cm.

Su questo strumento di dimensioni ridotte venivano riscaldati (ricotti 600/700° C) recipienti (pensate alle caldaie) di dimensioni ragguardevoli. L’attività principale della bottega era quella della lavorazione delle “toine” (le tine) che comprendeva i passaggi che proverò a descrivere.

Il prodotto di partenza era un recipiente cilindrico, chiuso sul fondo da una calotta sferica abbastanza pronunciata, un poco più largo verso l’alto (svasato verso l’esterno).

Come prima operazione si eseguiva la centratura sul fondo. Per quest’operazione si utilizzava un compasso con cui si tracciavano, puntando una punta sul bordo, 4 archetti in modo da ottenere un quadratino centrale. Tracciate le diagonali del quadratino si otteneva il centro che veniva “bulinato”.

Dal centro, bulinato, con il compasso si tracciava sul fondo del recipiente una circonferenza con la funzione di limite.

La fase successiva avveniva su una panca, con una piastra metallica, su cui si sedeva, cavalcioni, l’operatore che con un martello di legno, di solito ramo di ulivo stagionato, alto più del recipiente, iniziava la lavorazione del fondo. Le martellate seguivano una spirale dal centro verso l’esterno mentre il recipiente, con l’asse leggermente inclinato, era mosso da una mano e da un ginocchio con il secondo ginocchio di supporto. Tutto era bene coordinato e il risultato finale era di ottenere una calotta sferica meno concava o più piatta. L’operazione terminava con un martellamento, con martello rastremato a scalpello, che spingeva il bordo del fondo il più possibile verso l’esterno. In seguito si passava alla lavorazione al cavallo.

Quest’attrezzo era composto di due tronchetti verticali collegati da una traversa orizzontale con uno sbalzo, tipo collo di cavallo, sull’estremità era montata una piccola incudine con superficie di lavoro leggermente curvata.

Ramai - lavoro al carrelloI due montanti verticali erano diversi: quello posteriore grosso e pesante (doveva equilibrare il peso dell’operatore) l’altro aveva una forma a “Y” rovesciata per evitare ribaltamenti laterali. L’operatore seduto cavalcioni inseriva il recipiente sullo sbalzo e si assicurava che l’incudine toccasse il fondo (foto), quindi procedeva a posizionarlo in modo che l’asse fosse leggermente inclinato verso l’alto e iniziava contemporaneamente a martellare e fare ruotare il vaso. Concluso il giro, il vaso era fatto avanzare verso l’esterno mantenendo sempre lo stesso angolo d’inclinazione (come in una tornitura conica). La rotazione era ottenuta dall’azione del ginocchio e della mano, non impegnata dal martello, mentre alla perfetta centratura contribuiva (come le lunette del tornio) il secondo ginocchio. La lavorazione terminava quando era raggiunta un’altezza 4 o 5 cm minore di quella del recipiente. Raggiunto il punto prestabilito, s’invertiva l’inclinazione dell’asse, da verso l’alto a verso il basso, procedendo in modo identico la lavorazione (rotazione, avanzamento martellamento). Il risultato era diverso perché nella prima fase si otteneva un restringimento del vaso man mano che si procedeva verso l’alto mentre nella seconda si produceva uno svasamento (allargamento) man mano che si andava verso l’alto. L’effetto finale (doppio tronco di cono attaccati sulla base minore) era ottenuto dopo sei o sette passaggi sul cavallo, avendo l’accortezza durante ogni passaggio di diminuire l’altezza del primo tronco e aumentare quella del secondo. Durante tutte queste operazioni, qualche volta per disattenzione, si producevano le “cornacchie” (vedi nota) .

Tra una lavorazione e la successiva il manufatto in lavorazione doveva essere ricotto sulla forgia. La ricottura era una operazione che richiedeva abilità, conoscenze e molta attenzione perché il focolare era piccolo rispetto alle superfici da riscaldare e quindi potevano essere effettuati solo, riscaldamenti localizzati con il rischio di ottenere un trattamento non omogeneo. La temperatura di riscaldo era individuata dal colore, solo un mastro esperto era in grado di capire quando era raggiunta.

Ramai - battituraLa toina posta sul carbone acceso era sostenuta con un gancio e girata con delle tenaglie da fabbro (foto). Sostenere l’oggetto era fondamentale perché il peso poteva causarne il collasso (ripiegamento o schiacciamento del vaso). Dopo tutte queste lavorazioni si otteneva un oggetto ancora grezzo che andava rifinito.

Le operazioni di finitura iniziavano con un decapaggio (eliminazione degli ossidi di rame dalla superficie della toina), che consisteva nel riscaldare l’oggetto alla temperatura di ricottura per immergerlo in acqua prima che raffreddasse (vedi nota). Dopo quest’operazione il rame acquisiva il proprio colore naturale (rossastro) ma non la lucentezza. Per conferire lucentezza al rame le superfici erano cosparse con la feccia (feleccia) del vino. L’operazione finiva con un lavaggio con acqua.

L’effetto finale era quello di avere un rame pulito e lucido nel suo caratteristico colore rossastro. Da questo momento era vietato toccare gli oggetti a mani nude perché, il sudore avrebbe annerito le parti toccate annullando tutto il lavoro di pulitura e lucidatura.

Si passava alla “cerchiatura” (vedi nota) che era fatta in due modi; nel primo si chiodava sul bordo del recipiente una fascetta di rame ( larga 20/ 25 mm con spessore 2/3 mm), nel secondo, più complesso, si applicava un cerchio di ferro. La scelta dipendeva dalla destinazione del prodotto, gli Agnonesi preferivano “la Toina” con il cerchio di ferro.

Seguiva la battitura delle superfici. Essa era eseguita su tutta la superficie con una doppia finalità, quella di irrigidire la lamiera di rame e renderla poco deformabile e quella di farle assumere un aspetto gradevole tale da attrarre i compratori.

Ramai - Battitura 1Per la lavorazione erano utilizzati i “ pali” e i “martelli”, entrambi avevano le superfici di lavoro lucidate a specchio (vedi note). La prima superficie battuta era quella di fondo (foto). Per fare questo si doveva conficcare il palo nel terreno e inserire la toina capovolta sul palo. Il mastro seduto su uno sgabello tramite le ginocchia e una mano era in grado di muovere l’oggetto facendolo ruotare, inclinare e spostare a ogni colpo di martello. Iniziava dal centro poi i colpi di martello seguivano una traiettoria a spirale che si restringeva man mano che si avvicinava al bordo del fondo.

La lavorazione acquisiva un pregio maggiore quando più vicini e regolari erano i colpi di martello che producevano superfici tonde e lucide. Quest’operazione era difficile perché il martello doveva colpire il punto esatto di contatto tra la lamiera e la testa del palo. Le difficoltà nascevano dal fatto che due superfici sferiche di diversa curvatura hanno un solo punto di contatto, come un punto di contatto hanno una sfera e un piano (martello). Il punto su cui colpire però era nascosto, non visibile… mi convinsi che gli occhi dei ramai erano dotati di Raggi X. Se non era centrato il punto esatto di contatto le conseguenze erano di avere delle rotture per sfondamento o rigonfiamenti verso l’esterno della superficie o impronte non circolari ma ovali. La grandezza delle impronte dipendeva dalla posizione del punto di contatto e dal fatto che la calottina “sferica” della testa del palo era a curvatura variabile.

Ramai - Battitura 2Per la battitura sulla superficie laterale cambiavano gli attrezzi ma non il procedimento (foto). Il mastro utilizzava sempre le ginocchia e una mano per il movimento del vaso e il martello con l’altra mano.

L’attrezzatura comprendeva:

– un martelletto con corpo molto lungo e stretto con testa quadra, leggermente più larga del corpo, la cui superficie di testa, dove avveniva in contatto, era lucidata a specchio.

– un palo con la testa, non più rotonda come il precedente, ma quadrata con un naso, all’estremità di una faccia laterale, con la punta sferica e lucida. La superficie di testa con la faccia opposta a quella del naso formava uno spigolo ben definito utilizzato insieme alla superficie di testa come incudine per altre lavorazioni, chiodatura, formazione di piccoli gradini, ecc…

– un tronchetto a forma di Y con un foro nella parte di congiunzione dei due rami con il corpo.

Inserendo il palo, con il naso rivolto verso l’alto, nel foro dell’Y (rovesciata ), si formava uno strano attrezzo a forma di X sul cui avvallamento sedeva l’operatore. Il recipiente era inserito sullo sbalzo del palo e lavorato.

Sul primo tronco di cono si realizzavano tramite martellamento (impronte successive) due greche, una vicino al fondo e l’altra in prossimità della strozzatura, mentre nella fascia centrale erano realizzati dei disegni (foglie, ghiande, lettere, figure di animali, ecc…). Il pezzo forte di mastro “Angiulino” era la raffigurazione di un passero poggiato su un ramo, che realizzava guardando il lavoro rovesciato.

Nella parte superiore erano realizzate delle circonferenze: la prima sul bordo del gradino creato sulla circonferenza di attacco dei due tronchi di cono, le successive distanziate 3 o 4 cm l’una dall’altra. Tutto questo lavoro aveva finalità decorative e, contemporaneamente, di aumentare la resistenza alla deformazione dell’oggetto. Le circonferenze ottenute dalla battitura si comportano come la cerchiatura delle botti.

Conclusa la battitura delle superfici laterali si applicavano i manici tramite chiodatura (vedi note). Dopo avere chiodato il primo dei due manici con un dito e con l’aiuto di un punteruolo, si poneva in sospensione il vaso; il mastro, con la sua esperienza, ripetendo più volte (max 2) questa operazione, individuava la posizione dove applicare il secondo manico.

Applicato il secondo manico, la toina” era finita. (foto)

A volte alcune di esse erano stagnate internamente (vedi note). Il lavoro finale raggiungeva la perfezione quando l’asse di simmetria risultava essere perpendicolare al piano di appoggio, le dimensioni rispettavano quelle definite dalla sezione aurea e i due tronchi di cono erano sostituiti da due paraboloidi.

I manici hanno la forma che assumono le braccia di una donna quando poggia le mani sui fianchi. I mastri ramai erano consapevoli che la toina assomiglia al corpo di una bella donna che, nell’iniziare a danzare, vuole mostrare tutta la sua sensualità. Per questo, nel realizzarla, mettevano sempre passione e amore.

Ramai - La tina

Chiedo ai giovani pensionati di Agnone (con del tempo a disposizione) di recuperare l’enorme patrimonio culturale che è nascosto nei vecchi mestieri e dico ai ragazzi di studiare, studiare, studiare ma anche di frequentare le botteghe perché qualche volta i problemi possono essere risolti utilizzando bene uno “sputo” (vedi note).

Questi miei ricordi vogliono essere un semplice omaggio a tutti i ramai, alla loro intelligenza intuitiva, alla loro laboriosità e in particolare a Fausto che pochi anni dopo, causa una terra natia troppo matrigna, perdeva la sua giovane vita in Germania.

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Note Tecniche

(con l’importanza dello sputo)

  1. Le “cornacchie”:

Sono ripiegamenti della lamiera di rame su se stessa che durante gli schiacciamenti delle lavorazioni si rompono, rotture che creano fessurazioni passanti da parte a parte (cricche). Questi “fori lunghi” erano riparati mediante saldo brasatura con la costantana come materiale d’apporto. I lamierini di costantana erano ricavati dalle viti delle lampadine tramite lavorazione di spianatura sull’incudine. Il procedimento di saldatura, per le “cornacchie” comprendeva i seguenti passaggi:

con un punteruolo si aprivano le cricche divaricando i lembi, con un martello, con corpo sottile, si allungavano i due lembi, martellando i semilavorati poggiati su un palo, in modo da creare una piccola sovrapposizione degli stessi a cricca richiusa. Successivamente si inseriva una strisciolina di costantana nella cricca divaricata e si richiudeva, con la solita operazione di martellamento, intrappolando il lamierino di costantana tra i lembi della cricca. Seguivano due “sputi”, uno interno e uno esterno, su cui era cosparso del borace (disossidante). Infine, la parte criccata era posta sulla forgia e riscaldata al color bianco ( 900°C ) dove solo il materiale d’apporto fondeva. Raggiunta la fusione e trascorso un poco di tempo il manufatto si toglieva dalla forgia e si lasciava raffreddare. Seguiva la pulitura e un collaudo visivo della saldatura, il risultato era quasi sempre perfetto.

Lo sputo è un ottimo collante per tenere in posizione sia il borace sia i lamierini almeno per il tempo di porre l’oggetto sul focolare della forgia. Ricordo che insegnai questa tecnica a un commilitone veronese (Trento 1975/76), che utilizzava la fiamma ossidrica come un pittore i pennelli, per la riparazione di un mezzo militare da inviare con urgenza in Friuli (zone terremotate), Entrambi guadagnammo (con lo sputo) una licenza premio ( 5 + 2) e le congratulazioni del colonnello.

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  1. Bonifica

Nel rame il riscaldamento alle alte temperature provoca una rigenerazione e un ingrossamento dei grani cristallini. Se al riscaldamento segue un brusco raffreddamento in acqua i grani si frantumano e la struttura interna del materiale diventa più omogenea. Il riscaldamento seguito da un brusco raffreddamento conferisce al rame una elevatissima plasticità (elevata deformabilità senza che avvengano rotture).

Invece, se sottoposto ad azioni meccaniche (martellamento) i grani si deformano, le dislocazioni si rompono impedendo lo scorrimento dei piani cristallini e il rame diventa molto duro (quasi come un acciaio) e resistentissimo al piegamento.

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  1. Cerchiatura

Per la cerchiatura, con fascette, si utilizzava un palo a testa quadra, un martello, un punzone, un dado, chiodi, un compasso e delle cesoie. L’operatore seduto sullo sgabello puntando il compasso, nel punto bulinato inizialmente, tracciava una circonferenza all’interno del vaso il più alto possibile. Con le cesoie tagliava le pari irregolari eccedenti della lamiera (rifilatura). Dopo avere poggiato il dado sulla superficie di testa del palo, disponeva una fascetta all’esterno del recipiente più giù di 4 o 5 mm dal bordo superiore, sistemava fascetta e recipiente sul dado, con la parte inferiore della mano (lato mignolo) teneva tutto fermo, prelevava con la mano libera il punzone, lo disponeva stringendolo tra il pollice, l’indice e il medio e procedeva tramite martellamento alla foratura (dall’interno verso l’esterno) della lamiera e della fascetta. Inserito nel foro un chiodo, fascetta e vaso erano capovolti, in questa posizione la testa del chiodo poggiava sul piano dell’incudine ed era possibile ricalcare il chiodo (martello e bulino sagomato). L’operazione era ripetuta per ogni chiodo (3 o 4 per ogni fascetta).

Con le stesse operazioni si fissavano (chiodati) i manici.

L’operazione di cerchiatura era completata con il ripiegamento della lamiera in eccesso intorno al bordo superiore della fascetta che avevano la forma di un settore di corona circolare (banana), ed erano lunghe dai 12 ai 25 cm e con le estremità arrotondate e più sottili, (metà dello spessore del corpo 2 mm). La leggera curvatura era necessaria per recuperare la circolarità quando veniva piegata sulla superficie del tronco di cono per essere chiodata (vedi sviluppo superficie tronco di cono).

Per l’applicazione del cerchio si procedeva, dopo la rifilatura, a creare uno sbalzo (piccolo gradino) lasciando una flangia, all’estremità alta della toina, uguale alla circonferenza del tondino. Per fare questo si utilizzava sempre il palo a testa quadra e il lavoro era eseguito sullo spigolo, il martello era a corpo lungo e sottile. Fatta questa prima operazione, s’inseriva il cerchio all’altezza dello sbalzo, poi il cerchio era poggiato sulla superficie di testa e il labbro sul fianco del palo. Posti i due oggetti, si procedeva con un martello di legno alla ripiegatura della flangia di rame intorno al tondino del cerchio. Finita quest’operazione, si capovolgeva il recipiente e con un martelletto, tipo piccozza, si completava l’operazione di avvolgimento incrudendo e conferendo resistenza alla lamiera di rame.

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  1. Chiodi

Si costruivano in bottega, partendo da quadratini di lamiera, dalla grandezza dei quadratini dipendeva quella del chiodo da costruire. Dopo avere pinzato su un angolo il quadratino, su un’incudine e con l’aiuto di un martello, si avvolgeva la lamiera in modo tale da ottenere un piccolo cono simile a quelli del gelato. Per la formazione della testa si ricalcava con un martello la parte di cono che sporgeva dal foro, in cui era stato inserito, realizzato in una piastra metallica. Sulla piastra erano presenti parecchi fori passanti, di diverso diametro. Dal diametro dipendeva la grandezza del chiodo da lavorare.

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  1. Cerchio

I cerchi in tondino di ferro si realizzavano mediante un procedimento semplice. L’attrezzatura prevedeva due perni inseriti nel muro leggermente sfalsati sia in orizzontale sia in verticale. Sul perno inferiore era inserita una “dima” (cerchio di ferro di sezione rettangolare di diametro quasi uguale a quello da realizzare), inserita, l’estremità della vergella tra il perno superiore e la “dima” si faceva leva sulla stessa provocandone il piegamento sul corpo del cerchio. Con avanzamenti opportuni del tondino e ripetendo l’operazione precedente si realizzava una spirale (molla). Poi dalla molla si tagliavano, mediante scalpello, degli anelli (spire) che erano raddrizzati (chiusi) sull’incudine. La circolarità era verificata mediante una sottile asta uncinata. Con il pollice in contrapposizione all’uncino si formava una rudimentale forcella che fatta spostare lungo la circonferenza funzionava come un calibro fisso passa non passa. In questo modo s’individuavano le eccentricità che erano modificate sull’incudine.

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  1. Pali e martelli

Realizzati con forme e per funzionalità diverse, avevano un corpo di acciaio dolce molto tenace, perché doveva assorbire le sollecitazioni, la testa di acciaio duro temprato perché le superfici di lavoro non dovevano subire deformazioni o consumarsi. Il monoblocco dei due materiali era ottenuto tramite bollitura.

Le superfici di lavoro, sferiche nei pali e piane nei martelli, erano lucidate a specchio

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  1. Lucidatura (pali e martelli)

Si utilizzava una piccola tavoletta (45 x 6 x 2 cm) sulla quale era fissata, per tutta la sua lunghezza, una striscia del sottopancia dei basti per animali da soma. La tavoletta era utilizzata come una lima per i pali e poggiata su una panca contro una spina per i martelli. Sulla striscia (fili di canapa intrecciati) era posto dell’abrasivo in polvere. Lo strofinio della tavoletta sul palo o quello del martello sulla tavoletta e l’azione dell’abrasivo provocavano la lucidatura.

L’abrasivo non era altro che ossido di stagno, si otteneva riscaldando in un crogiolo lo stagno fino alla completa fusione. Lo stagno liquido era rimescolato con un’asta metallica fino a quando non si trasformava in polvere.

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  1. Stagnatura

Il rame tende a ossidarsi facilmente, l’ossido di rame a contatto con l’acqua si trasforma in idrossido, comunemente chiamato verderame. Sostanza velenosa.

La stagnatura si ottiene cospargendo, con un batuffolo di canapa, l’interno del recipiente con cloruro di zinco. Posto l’oggetto da stagnare su una fonte di calore si porta a fusione dello stagno.

Tramite un batuffolo di canapa (stoppa) si cospargevano tutte le parti da stagnare con lo stagno liquido. Per “le toine” si partiva dal fondo, si passava quindi al primo tronco di cono per poi finire l’operazione con la stagnatura del secondo tronco, espellendo anche gli scarti della lavorazione.

Il cloruro di zinco si otteneva aggiungendo all’acido cloridrico dei pezzettini di lamiera di zinco fino a saturazione. L’operazione di preparazione si considerava conclusa quando lo zinco aggiunto non produceva più bollicine (Idrogeno).

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[1] Emidio Patriarca, molisano di Agnone, ingegnere meccanico

Editing: Enzo C. Delli Quadri
Copyright Altosannio Magazine 

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3 pensieri riguardo “Il fascino dei Ramai e l’importanza di uno sputo

  1. Sono uno studente universitario e sto facendo una ricerca su utensili usati dai ramai ,in maniera paticolare
    la ricerca verte sul martello a testa sferica .Vi chiedo se gentilmente potete inviarmi :notizie, storia, informazioni con quali materiali è fatto , manici ,dimensioni, fabbricanti ,rivenditori,foto del martello e filmati di lavorazione .La ricerca è a scopo prettamente didattico e devo consegnarla entro il 5 febbraio. appena sostenuto l’esame sarà mia premura inviarvi una copia. il mio numero di telefono 3356466322
    Vi ringrazio e vi auguro buone feste.

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